Il filologo Paul Maas a Copenaghen

Le carte ritrovate

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28 maggio 2020

La fama di Paul Maas, uno dei maggiori filologi classici e bizantini del secolo scorso, è legata a una ricchissima serie di lavori, perlopiù molto brevi, dedicati a una moltitudine di autori e testi delle letterature greca, bizantina e latina (e da un certo momento in poi anche di quella inglese); ai suoi studi sulla poesia e la metrica bizantina, culminati nell’edizione di Romano il Melodo pubblicata solo alla vigilia della morte con l’aiuto di Constantine Trypanis (il secondo volume uscì invece postumo); e, last not least, a tre essenziali introduzioni alla metrica e alla paleografia greche, così come alla critica testuale dei classici greci e latini, uscite nel giro di pochi anni fra il 1923 e il 1927, e in seguito più volte ristampate e tradotte in varie lingue. Di queste ultime tre opere è soprattutto la Textkritik ad aver attirato l’attenzione di studenti e studiosi non solo di letterature classiche ma anche di svariate altre tradizioni letterarie, consacrando in questo modo Paul Maas quale uno dei più autorevoli rappresentanti della moderna critica testuale. Ma a più di cinquant’anni dalla morte la sua fama non accenna a diminuire, nuove traduzioni dei suoi lavori continuano a vedere la luce — è di alcune settimane fa l’uscita della traduzione francese della Textkritik (e di altri suoi studi) a cura di Laurent Calvié —, e si ha quasi l’impressione che l’appassionato, infaticabile studioso che è stato Maas sia ancora al lavoro, perché le lucide annotazioni e le congetture sempre ingegnose da lui apposte nei margini di un gran numero di libri ed estratti, o conservate all’interno delle lettere e cartoline scambiate con i suoi tanti corrispondenti, continuano a essere pubblicate, e a essere utilizzate nelle più recenti edizioni critiche (così per esempio nella recente edizione di Erodoto allestita da Nigel G. Wilson).

Come conseguenza della precipitosa fuga di Maas dalla Germania nazista a pochi giorni dallo scoppio della seconda guerra mondiale, e del susseguente lungo esilio inglese (lo studioso si stabilì a Oxford, e da lì non si mosse più fino alla morte, sopraggiunta nel luglio del 1964), le carte e i libri e gli estratti appartenuti a Maas si trovano disseminati in varie biblioteche pubbliche e private europee, e poi in Israele e negli Stati Uniti. E anche se è vero che la sua eredità è soprattutto «un luogo dello spirito», come a ragione ha detto Luigi Lehnus, altrettanto vero è che qualsiasi incremento alla nostra conoscenza diretta della sua attività ci permette di scoprire nuovi aspetti della sua straordinaria, e al tempo stesso umanissima, figura di studioso. Così, ai molti luoghi già noti in cui si trovano parti più o meno consistenti del Nachlass maasiano — e tra i quali figurano per esempio Oxford, Cambridge, Monaco di Baviera, Berlino, Gerusalemme, Cambridge nel Massachusetts, il che vuol dire l’Università di Harvard, e Milano, Firenze, Roma —, d’ora in poi andrà aggiunta anche Copenaghen. Qui, nella Biblioteca reale, in sette pesanti faldoni si conservano centinaia e centinaia di pagine manoscritte e dattiloscritte di Maas, comprese collazioni di manoscritti del Monte Athos e della Biblioteca Nazionale di Parigi, e poi un cospicuo numero di estratti suoi e in minima parte di altri studiosi che recano talvolta sue postille, un’ampia raccolta di lettere a lui indirizzate e qualche importante minuta (e addirittura un paio di brevi recensioni alla sua Textkritik finora sfuggite all’attenzione degli studiosi). Sono tutti documenti che, tranne rare eccezioni, risalgono al periodo precedente alla fuga di Maas verso l’Inghilterra e, per quello che riguarda i materiali autografi, in particolare ai primi dieci anni del secolo, durante i quali il giovane studioso (Maas era nato a Francoforte sul Meno nel 1880) dispiegò, come ora capiamo ancora meglio che in passato, un’attività che ha semplicemente del prodigioso; sono documenti che nel loro insieme indirettamente riflettono la netta cesura che l’estate del ’39 segnò nella vita — ma non nell’attività scientifica — del grande studioso; e possono essere studiate, queste carte maasiane, nell’accogliente Research Reading Room, ospitata nella nuova ala della biblioteca che affaccia direttamente sull’acqua, un gioiello dell’architettura contemporanea ribattezzato con il suggestivo nome di “Diamante nero”.

Prima di dire qualcosa di più sui materiali contenuti nei sette faldoni, converrà spendere due parole su come questi documenti sono arrivati a Copenaghen. La moglie di Maas, Karen Ræder, era danese e prima di abbandonare definitivamente anche lei insieme con le figlie la città di Königsberg, dove la famiglia Maas aveva vissuto a partire dal 1930, riuscì a mettere in salvo parte delle carte e dei libri del marito. Dove esattamente fossero finite le carte ritrovate per ora non lo sappiamo, così come non sappiamo quali altri materiali possano essere forse ancora conservati dai discendenti di Maas; sappiamo solo che nel 1970, dunque esattamente cinquant’anni fa, Brigitte Lomholdt, una delle tre figlie di Maas, le donò alla Biblioteca reale dove sono rimaste fino a oggi, del tutto ignote a tutti. Non vi sono purtroppo lettere di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, il principe dei filologi classici tedeschi, che era stato il primo maestro di Paul Maas e con il quale questi soprattutto negli anni ’20 aveva intrattenuto un rapporto scientifico e umano molto stretto; né vi si trovano lettere di Giorgio Pasquali, con il quale pure sappiamo che Maas aveva tenuto una rilevante corrispondenza (varie lettere di Maas a Pasquali sono state pubblicate e commentate da Luciano Bossina una decina di anni fa); né vi è traccia di una particolare lettera che gli era stata scritta da Theodor Mommsen e che ai suoi occhi rivestiva un enorme significato.

In compenso però c’è tantissimo altro. A cominciare da un’opera di Maas che tutti finora avevano dato per perduta: la sua Metrica bizantina. Maas vi aveva iniziato a lavorare probabilmente nel 1904, nell’aprile del 1907 aveva firmato il contratto con la casa editrice Teubner, poco tempo dopo l’opera veniva indicata come d’imminente uscita, ma poi — per ragioni che al momento non conosciamo e che sono forse legate anche alla prematura scomparsa nel dicembre del 1909 di Karl Krumbacher, del quale Maas era diventato nel frattempo allievo e in poco tempo collaboratore e amico —, il progetto fu abbandonato. Quando alla fine dell’agosto del ’39 Maas riuscì a fuggire dalla Germania, insieme a poche altre cose egli portava con sé la propria copia del Liddell-Scott, il più importante dizionario moderno del greco antico, la cui nuova edizione egli aveva discusso in una serie di esemplari recensioni a partire dal 1925, e all’aggiornamento del quale avrebbe lavorato nei decenni successivi a Oxford; ma non la Metrica bizantina, che riaffiora adesso fra le carte di Copenaghen e che meriterà senz’altro di essere studiata e, sebbene non sia stata condotta a termine, probabilmente pubblicata. Insieme ad altri manoscritti sulla poesia bizantina, troviamo anche la motivazione del premio di 1.500 marchi ottenuto al concorso bandito dall’Accademia delle Scienze di Monaco sul tema «La metrica della poesia religiosa e profana dei Bizantini», e vinto da Maas con un lavoro che costituisce evidentemente il primo nucleo della Metrica bizantina (la motivazione venne pubblicata nei Rendiconti dell’Accademia del 1907); il manoscritto della prolusione al suo primo corso di libera docenza all’Università di Berlino tenuta il 10 gennaio 1910, dal titolo I compiti della filologia bizantina, e poi un folto numero di lettere. Abbiamo qui fra i mittenti per esempio Cecil Maurice Bowra, Franz Dölger, Paul Friedländer, August Heisenberg, Edgar Lobel, Eduard Norden, Georg Ostrogorsky, Werner Peek, Otto Schroeder, Bruno Snell, e quindi Achille Vogliano e Girolamo Vitelli, a testimonianza degli stretti rapporti che Maas durante tutta la sua vita intrattenne anche con numerosi studiosi italiani (e fra i quali vi furono anche il cardinale Giovanni Mercati e ancor più suo fratello Silvio Giuseppe). Vi possiamo leggere anche, oltre a un’ampia corrispondenza con la casa editrice Teubner a proposito dell’edizione di Romano il Melodo, che era pronta per la pubblicazione già nel 1920 ma che non poté allora essere pubblicata per mancanza di un numero sufficiente di sottoscrittori, una lettera di Medea Norsa, l’ammirevole papirologa e fedele collaboratrice di Vitelli, datata Firenze, 11 dicembre 1933. Da questa lettera riporterò un brano che dà un’idea dello spirito che animava il dialogo scientifico fra Maas e Vitelli (e Medea Norsa stessa), notando per inciso che Vitelli aveva allora la veneranda età di 84 anni: «Il prof. Vitelli sta abbastanza bene e lavora. Le ha spedito alcune sue osservazioni sui frammeti di Eschilo (Niobe e Dikt. sc i Pescatori con la rete) e un nuovo framm. di Cratino. A lui rincresce molto di non essere sempre e interamente d’accordo con Lei, ma egli spera che del suo diverso modo di giudicare e di intendere Ella vorrà avere sentimento altrettanto equo quanto ne ha egli stesso rispetto ai diversi pareri dei dotti amici: pur restando diversa l’opinione rimane inalterata la stima e l’alta considerazione per il valore del dotto amico di parer contrario».

Grazie alle tante pagine autografe, di là dalle singole acquisizioni documentarie, le carte di Copenaghen permetteranno però soprattutto di penetrare nell’officina di uno dei più grandi critici del Novecento. Sì, non solo di uno dei maggiori critici testuali novecenteschi quale Paul Maas è da tempo universalmente riconosciuto — e a questo proposito si ricordi fra l’altro che un suo breve contributo di filologia shakespeariana è stato sufficiente a modificare il corso di quegli studi —, bensì proprio come uno dei più grandi critici novecenteschi in generale. Perché la verità, in parte ancora misconosciuta, è che al centro della sua idea di critica testuale, e analoga considerazione vale anche per la sua concezione degli studi metrici, c’è la critica stilistica; una critica stilistica tutta interna, e potremmo dire interiorizzata, aliena da qualsiasi dichiarazione troppo esplicita, che rifulgeva anzitutto nelle sue emendazioni congetturali e che — quasi una fonte sotterranea — ha alimentato in realtà tutto il suo lavoro. Certo, con la sua acuminata intelligenza Maas sapeva svolgere anche ragionamenti di una logica stringente e sottile, così da essere in grado per esempio di racchiudere i princìpi della critica testuale in non più di 34 pagine, quante ne conta l’edizione definitiva della sua Textkritik, e rischiando così paradossalmente di passare talvolta per un filologo matematizzante e astratto; ma la sorgente della sua ardua filologia restava sempre la profonda, intima conoscenza e l’amore per la parola degli autori e dei testi da lui studiati, come soprattutto per la poesia bizantina confermano ora queste carte ritrovate.

di Giorgio Ziffer