Diritti umani - R. D. Congo

La ragazza coraggio

Rebecca Kabugho in carcere (foto dal suo profilo Facebook)
30 maggio 2020

Rebecca Kabugho è stata la più giovane prigioniera politica al mondo  


«Nella lotta civile e non violenta ti possono arrestare, condannare, si può anche morire, ma questi non sono motivi per abbandonare; anzi, lottiamo proprio per una giustizia che funzioni e perché non ci siano più condanne ingiuste, lo facciamo per le generazioni future» dice Rebecca Kabugho, in un’intervista che la riprende nel film Congo lucha di Marlène Rabaud.

Oggi Rebecca è una donna forte, sorridente e determinata, come la giovane che ho incontrato per la prima volta nel 2016 a Goma, una donna che continua a mostrare una fierezza e un entusiasmo contagiosi per aver combattuto per delle cause giuste e nobili.

Rebecca e io ci siamo incontrate per la prima volta nel 2016, nel giardino della Caritas di Goma, nella regione del Nord-Kivu nella Repubblica Democratica del Congo. A quell’epoca era stata da poco scarcerata, dopo aver scontato una pena di sei mesi (la condanna era a due anni, ridotti poi a sei mesi) per aver organizzato delle manifestazioni non violente contro l’allora presidente Joseph Kabila, e aveva subito ripreso il suo posto nei ranghi del movimento civile e non violento Lucha (Lutte pour le Changement – Lotta per il cambiamento). A 21 anni con quell’arresto divenne la prigioniera politica più giovane al mondo.

In un Congo in cui la popolazione vive da decenni prigioniera tra uno stato predatore e corrotto e centinaia di gruppi ribelli che fanno della violenza contro le popolazioni locali lo strumento di controllo delle ricchezze del sottosuolo, Lucha si presenta come un movimento civile che vuole partecipare in prima linea al dibattito politico del proprio paese. Un paese per il quale le enormi ricchezze in materie prime rappresentano in realtà precarietà e guerra per la sua popolazione.

Nel 2016 Rebecca partecipava instancabilmente alle azioni rigorosamente non violente del movimento, andando a bussare alle porte per parlare con la popolazione, distribuendo volantini che sollecitavano il popolo congolese a dire «Bye bye a Kabila». Il mandato di Joseph Kabila scadeva il 19 dicembre di quell’anno ma il presidente non dava segnali di voler organizzare le elezioni nel rispetto dei dettami dalla costituzione che prevedeva, dopo lo scadere dei due mandati consecutivi, la necessità di un’alternanza democratica alla presidenza del paese. Mi raccontò che si era avvicinata al movimento per la sua volontà, di appartenere a un gruppo di persone con le quali condivideva la stessa visione, le stesse indignazioni e la stessa speranza per il Congo, per l’Africa e per l’umanità intera. Bisognava costruire e rafforzare un movimento che non avesse tra i suoi obiettivi quello di prendere il potere, ma che costringesse chi il potere deteneva a esercitarlo per il bene comune. Era il 2013 e Rebecca aveva 19 anni. Nel 2016 Rebecca era una studentessa in psicologia all’Université Libre des Grands Lacs a Goma. L’arresto e la condanna a sei mesi l’hanno costretta ad abbandonare gli studi che poi ha però potuto riprendere e terminare in un percorso a ostacoli costituito da minacce, intimidazioni, accuse ingiuste e una decina di arresti. Non so quanto tempo abbia passato in prigione in totale, ben più dei sei mesi dell’arresto del 2016, ma forse non li conta più neanche lei. Quando nel 2017 ho invitato Rebecca a venire a Bruxelles per parlare davanti al Parlamento europeo in una conferenza pubblica che avevo allora organizzato in quanto direttrice del Network Europeo per l’Africa centrale – EurAc – era chiaro che gli arresti non avevano affievolito la sua motivazione e l’impegno, frutto dell’indignazione nei confronti della cattiva gestione pubblica e delle ingiustizie così frequenti in Congo. Accanto al tema strettamente politico delle elezioni e del potere, Rebecca si occupava e si occupa tutt’oggi di molti temi sociali come l’accesso all’acqua potabile, all’elettricità, all’educazione e all’impiego chiedendo un investimento per migliorare le infrastrutture del paese e migliorare le condizioni di vita delle comunità che versano in condizioni molto precarie.

L’impegno senza sosta di Rebecca le ha permesso di farsi conoscere anche al di fuori del Congo. Nel marzo del 2017 le è stato conferito il premio internazionale Women of Courage grazie al quale ogni anno vengono premiate donne di tutto il mondo che hanno dimostrato coraggio, forza e leadership. Quando ho chiesto a Rebecca quali siano stati i vantaggi di aver vinto un tale premio si è soffermata sulla ricchezza di aver potuto allargare i propri orizzonti e incontrare altre donne che lottano tutti i giorni per cause altrettanto nobili. Senza sottovalutare l’importanza del fatto che grazie alla visibilità ottenuta, Lucha ha potuto far conoscere la propria lotta al di là delle frontiere del Congo «facendo arrivare al mondo intero la voce di chi voce non ne ha».

Oggi Rebecca ha iniziato a collaborare con un artista congolese che vive a Parigi, Yves Mwabma: sognano di completare e portare in giro uno spettacolo teatrale che parla della lotta non violenta in Congo. La lotta continua in forme diverse, ma l’obiettivo è sempre lo stesso: quello di «fare della Repubblica Democratica del Congo un paese nuovo nel quale la giustizia sociale e la dignità umana possano regnare, in cui i figli e le figlie del paese possano essere fiere di farne parte, un Congo che promuova la dignità delle sue comunità e che faccia emergere il paese al cuore dello sviluppo dell’Africa e del mondo».

di Donatella Rostagno
Analista politica, ex direttrice del Network europeo per l’Africa centrale