Pestilenze e quarantene da Leopardi ai poeti contemporanei

La profezia di Tristano

Vinicio Capossela nel video del brano «+Peste»
09 maggio 2020

Non è un luogo comune, o un encomio facile da quarta di copertina; l’arte è davvero portatrice di un messaggio profetico, consapevolmente o meno. Le antenne degli artisti (cantautori o poeti che siano) sono spesso in grado di intercettare dinamiche solo potenziali destinate a diventare realtà, anticipando la cronaca.

È successo con Vinicio Capossela, che l’estate scorsa cantava di pestilenze, contagi e nuove forme di barbarie in Ballate per uomini e bestie (e in +Peste, incisa in collaborazione con Young Signorino) smascherando il dissesto profondo del nostro rapporto con la natura e con i nostri simili. E a Massimo Bisotti, che nel suo Karma City (del 2019, edito da Harper Collins) parla del sogno di un distanziamento sociale permanente, volontario, per avere la possibilità di ricominciare, in un mondo distopico e cupo. È successo anche a Stelvio Di Spigno, con una raccolta di versi composti ante covid-19 che a breve sarà in libreria per i tipi di Marcos y Marcos.

«Irreale è questa stanza e il sogno/che la contiene. Si allarga di notte,/fino a diventare immaginaria — scrive, rendendo omaggio al sonetto 234 del Canzoniere di Petrarca O cameretta che già fosti un porto — non /si vede più l’armadio, la porta, la vetrata,/il quadro della Madonna col Bambino,/ma un sussurro di foglie e il guaiolare/dei cani, dall’ampia campagna di fronte,/entrano e prendono possesso».

Nel buio, la stanza diventa un osservatorio spalancato verso la totalità, «si fa enorme, sparisce ogni confine /temporale, si vede solo un’età/ perduta come un rampicante, /ai piedi del mio letto, dove dormivo solo. /Mi tornano alla mente i desideri/le azioni del giorno e le avventure/del pensiero. E guardo questo spazio/diventato puro. La luce della lampada/fa sparire anche me nel suo candore/ridivento della terra, del vento, del cielo/poi mi sento lontano e catturato/verso mondi che non possono morire/e degli anni che restano non vedo più la fine/nella danza di queste ore inebriate».

Viene in mente l’austera solennità del Leopardi “morale”, che l’autore della poesia ha a lungo amato e studiato. Forse è giunto il momento di rileggere il suo Dialogo di Tristano con un amico. «Andrebbe letto ogni giorno — chiosa Di Spigno — ma in un tempo come questo, dove molte false certezze sono state spazzate via con la massima semplicità, come un bambino che scalcia via un giocattolo rotto, la sua drammatica vitalità viene fuori con ancora più prepotenza. E bellezza. Che cosa accade infatti nel Tristano? C’è un ultimo atto di verità». A Leopardi viene rinfacciato che se la vita per lui è così funesta dev’essere per motivi personali, di sofferenza propria, di malattia o di altra infermità tutta sua. Destituendo, così, di ogni fondamento tutta la sua ricerca e le sue conclusioni. Qualche coordinata spazio temporale: siamo nel 1832, e il Tristano è l’ultima delle Operette morali.

«La risposta di Leopardi — continua Di Spigno — diventa veemente, e dice a chi lo accusa di essere semplicemente malato e che la verità sulle cose non dipende da fattori personali. Chi lo afferma lo fa in malafede perché troppo codardo per guardare il deserto della vita nella sua sconfinata desolazione. L’uomo crede ciò che gli serve. Il filosofo invece cerca ciò che è. Pensiamo a quanta pseudo scientificità è naufragata di fronte a questo virus. Ma non eravamo pronti ad andare su Marte? Non abbiamo il vaccino per tutto, anche per la tristezza e la sventura? Il libero mercato non è a prova anche di bomba atomica? Tre semplici domande, e la stessa risposta. L’uomo ama illudersi. Non può e non vuole vivere in uno stato di “esposizione” e fragilità. Eppure è bastato questo virus, tra l’altro non così nuovo né imprevedibile, e la reazione a catena è stata micidiale. Tutto ciò che è venuto giù era costruito sulla sabbia: dalla convinzione di essere coperti da una medicina che cura tutto alla solidità di un sistema economico che se si chiudono le saracinesche uno o due mesi crolla come un castello di carte. Gli uomini del passato erano abituati a convivere con povertà ed epidemie. Noi no, evidentemente. In questa differenza si apre uno spazio ragionativo enorme. Alla fine, è sempre la natura a vincere, a venire allo scoperto (e noi con lei) a mostrare la nuda verità su tutto. Le false mitologie scompaiono e ci riscopriamo deboli e impotenti. Leopardi lo ha detto quasi duecento anni fa; questa forse è la vera meraviglia di tutta la questione».

di Silvia Guidi