Come nei secoli la cultura ha «gestito» in senso catartico le pestilenze in perfetto equilibrio tra realtà e finzione

La piaga e il balsamo

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11 maggio 2020

Opposti e complementari. Le brutture della peste, con le sue letali conseguenze, e le bellezze della cultura, con le sue sublimi creazioni. Nel momento in cui infuriano le prime, le seconde, come per reazione, sorgono e si sviluppano. Facendo da contraltare. E così mentre nel corso della storia si registra il male legato da perniciose manifestazioni della natura, si afferma anche il bene di un patrimonio fatto di ingegni e di intuizioni, che non intende demonizzare il nemico, ma sublimarlo, servendosi dei talenti della letteratura e dell’arte. È in quest’ottica che si inquadra la rubrica del nostro giornale intitolata Il racconto dell’epidemia nei secoli, che con diversi contributi (altri ancora sono in procinto di essere pubblicati) ha voluto ripercorrere la cronaca di drammatici avvenimenti e richiamare, a beneficio dei lettori, la veste letteraria con cui tale cronaca è stata confezionata. Un connubio di realtà e finzione che rappresenta un significativo spaccato nella storia della cultura.

La peste di Atene, nel 430 a.C. venne raccontata da Tucidide, considerato “il primo storico scientifico”, nella Guerra del Peloponneso. Colpisce, nel suo serrato racconto, la meraviglia di fronte a un fatto di cui non si aveva memoria nel mondo antico. La meraviglia dello storico era la stessa meraviglia che invase i medici i quali si sentirono impotenti non sapendo quali argini porre al dilagare del morbo. Gran parte di loro soccombettero all’epidemia, essendo ovviamente entrati in contatto con i malati nel disperato tentativo di dare loro adeguata assistenza. Si stima che la peste uccise due terzi della popolazione. La peste dà agio allo storico di elaborare una riflessione di carattere etico. Nella patria di Fidia e di Platone, nella città faro della democrazia e che aspirava ad assurgere a simbolo della democrazia, il terribile evento aveva fatto sì che, come reazione, numerosi cittadini rompessero ogni argine e violassero il rispetto di ogni buona creanza. Ma al contempo Tucidide non manca di celebrare le gesta di coloro, anzitutto i medici, che si prodigarono — pur con i modestissimi mezzi a loro disposizione — nel tentativo di guarire i malati, o almeno di lenire le loro sofferenze. Fino al sacrificio di sé stessi. A distanza di tanti secoli, alla luce delle drammatiche conseguenze inferte dal coronavirus, l’esempio dei medici, e infermieri, dall’antichità ai giorni nostri, rimane immutato. Degno della massima lode.

Anche il mondo dell’arte è stato segnato nei secoli dall’infuriare delle epidemie, costringendo gli artisti a rinchiudersi nella propria dimora per evitare il peggio. Ma il genio di alcuni artisti ha saputo tradurre in somma bellezza una realtà lesiva e deturpante. Da Rembrandt a Tiziano, da Caravaggio a Durer, si è sviluppata una narrativa che rappresenta la testimonianza della strenua volontà dello spirito umano a non soccombere al male e, nello stesso tempo, dell’intima forza che innerva e anima la cultura se minacciata dalla natura e dalle sue devastanti manifestazioni. A questi maestri si aggiunge Nicolas Poussin che predendo spunto dalla peste di Milano del 1630 (e da un episodio del Vecchio Testamento) dipinse La peste di Azoth.

E alla peste a Milano dà significativo rilievo Alessandro Manzoni nei Promessi sposi. Di fronte all’epidemia lo scrittore evidenzia l’impotenza dell’uomo, che si crede, a torto, sovrano delle cose terrene. Nonostante fosse stato avvertito per tempo circa i prodromi del morbo, il tribunale della sanità rimane inerte. Ma il male avanza e opporvi l’incredulità, sembra suggerire Manzoni, non è una tattica saggia. Come se non bastasse, il governatore, lungi dal raccomandare la social distancing, come diremmo oggi, incurante del pericolo ordina pubbliche feste per la nascita del primogenito di Filippo iv. Al rischio letale del contagio non ci pensa proprio. Non gli è da meno la popolazione milanese: anch’essa non crede all’esistenza della peste nel contado. «Chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo», scrive Manzoni. E così la peste entra a Milano. Lo scrittore non fa sconti nel biasimare la cecità dell’uomo di fronte al male venuto, a suo modo, per far giustizia di torti e soprusi: ecco dunque imporsi le figure di due medici che cercano di stornare il flagello. Verranno tacciati come «nemici della patria». L’etica manzoniana — fondata sul senso dell’armonia tra gli uomini — è scossa dal fenomeno della peste. Essa infatti mette a nudo le bassezze che corrompono la natura umana. E come a voler rigirare il coltello nella piaga, Manzoni evidenzia come in uno scenario così torbido riusciva comunque a lingueggiare qua e là la fiamma del «buon senso» di chi aveva capito come stavano le cose e come bisognava agire per risolvere la situazione.

Nel primo decennio del regno di Giacomo i i teatri di Londra rimasero chiusi a causa della peste. Confinato entro quattro mura, il genio di William Shakespeare non si sentì penalizzato, visto che produsse alcuni dei suoi capolavori, tra cui il Re Lear (1606). Nella tragedia la parola plague (“peste”) ricorre più volte. In uno dei passi dell’opera si legge: «Cordelia mia. T’ho ritrovata. Chi vorrà dividerci dovrà carpire al cielo un tizzone ardente e, come volpi, scacciarci col fuoco. Tergiti gli occhi, li divorerà la peste, carne e pelli, prima di farci piangere».

L’epidemia che afflisse Londra nel 1665 viene descritta con vivezza di dettagli da Daniel Defoe nel Diario dell’anno della peste (1722). Le prime vittime del morbo sono i poveri. In seguito in tanti moriranno suicidi nell’isolamento imposto dallo Stato. In una Inghilterra puritana la peste è concepita come la conseguenza dell’ira di Dio per i peccati umani.

Una Venezia colpita dal colera — nel romanzo La morte a Venezia di Thomas Mann — fa da cornice all’amore, vano e tragico, dello scrittore Gustav Aschenbach (minato dalla malattia) per il giovane Tadzio, di eterea bellezza. L’epidemia verrà a deturpare la purezza e l’armonia, ovvero quei canoni classici preso a modello dallo scrittore e concepiti come baluardo da opporre ai marosi scatenati dal destino. Una terribile epidemia che decima la popolazione di un fantomatico principato è il tema de La maschera della Morte Rossa di Edgar Allan Poe. Folgorante è l’incipit: «La Morte Rossa aveva da tempo devastato il paese. Nessuna pestilenza era mai stata così fatale o così terribile. Il sangue era il suo avatar e il suo marchio: il colore rosso e l’orrore del sangue».

La rubrica ha dedicato attenzione, doverosamente, non solo a La peste di Albert Camus, ma anche a testi inediti, sempre sulla peste, dello scrittore francese. Inedito in Italia è il documento tratto dai «Cahiers de la Pléiade» del 1947 intitolato Le archives de la peste. In questo numero della storica rivista Camus pubblica due testi, l’Esortazione ai medici della peste e il Discorso della peste ai suoi amministrati: si tratta di materiali, con una loro propria specificità, che precedono di qualche mese (giugno 1947) l’uscita del suo capolavoro. Sarà pure un “minore” della letteratura italiana, ma Raoul Maria De Angelis fu protagonista di una querelle letteraria proprio con Camus. La sua opera, La peste a Urana, precede di tre anni La peste dello scrittore francese. Le affinità tra i due romanzi insinuano il sospetto di plagio. Camus declinò ogni responsabilità ma ciò che è importante rilevare è che il premio Nobel per la letteratura dedicò una privilegiata attenzione al romanzo di De Angelis. Ciò a conferma di un’arguta sentenza di Jorge Louis Borges: «Ogni scrittore crea i suoi precursori».

Nel 252, per i fedeli colpiti da una tremenda pestilenza, il più insigne dei Padri preniceni, san Cipriano, scrive De mortalitate. L’epidemia era esplosa in Egito, causando migliaia di morti: il morbo arriverà anche a Roma. Non c’è solo crudo realismo nell’opera, ma anche e soprattutto la visione cristiana del dolore e della morte, nonché l’invito alla speranza.

Il tempio della Sagrada Família nasce proprio durante un’epidemia, che colpisce in particolare Barcellona: si tratta della febbre gialla, il tifo, totalmente sconosciuto in Europa. È il 1870. Barcellona vive la sua massima espansione grazie alla seconda rivoluzione industriale. Ma arriva il tifo, che si insedia nei quartieri più poveri. E la città diventerà ben presto un deserto. A fronte del vuoto creato dall’epidemia, un editore barcellonese ha l’intuizione di istituire un’associazione spirituale. I membri andranno poi da Pio IX con un obolo e quindi inizieranno una peregrinazione che tocca prima il Santuario di Loreto e successivamente quello di Montserrat, dove maturano il proposito di una nuova iniziativa: costruire una chiesa espiatoria, ossia che si finanzi unicamente con l’elemosina.

di Gabriele Nicolò