«Diario dello smarrimento» di Andrea Di Consoli

La nostalgia di Dio

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06 maggio 2020

Andrea Di Consoli è uno scrittore non credente che scrive continuamente di Dio, spesso nella forma del desiderio e della nostalgia. E lo fa in un modo così particolare — l’aggettivo «brutale» aiuta forse a definirlo — da riuscire a farne sentire più di altri l’urgenza, la necessità estrema in una società che spesso si illude di poterne fare a meno. «Al fondo io sono un cattolico. Un cattolico disperato, che non crede più a Dio, ma vive come se ci fosse. Tutta la mia nostalgia è nostalgia di Dio. Per me non c’è cosa più raccapricciante che notare nei tanti volti che mi circondano la scomparsa della memoria della Croce». L’autore, per il suo ultimo libro, ha scelto un genere non comune e solo in apparenza di facile scrittura, il diario. E ha scelto una parola non nuova per definire l’oggetto di questo racconto diaristico, quella che Dante, già nei primi versi della Commedia, scelse per chiarire al lettore la condizione di partenza del proprio viaggio: smarrimento. Anche Diario dello smarrimento (Roma, Inschibbolet, 2019, pagine 176, euro 15) è un viaggio, ma, a differenza di quello dantesco, non ha lieto fine e lo smarrimento permane. L’opera richiama, in questo senso, un altro indimenticato capolavoro del genere: Il Mestiere di vivere di Cesare Pavese. Sono brevi racconti di vita, pensieri notturni, frammenti, note da taccuino. Eppure, proprio nello spazio di questa “poetica del frammento”, l’autore si ritrova a confessare il desiderio opposto: la totalità. Ancora una volta Dio. «Mi rendo conto che la mia natura ha sempre aspirato al disegno totalizzante, al sentimento assoluto, a Dio. Per tutta la vita ho parlato virilmente di cocci e invece in testa avevo l’immagine del vaso nella sua interezza. E in fondo la mia devastante malinconia non è altro che questo tradimento, questo sforzo immane che faccio ogni giorno di fingere di credere nei cocci, nel frammento, nel caduco». Di Consoli guarda a Pavese ma è forte in lui l’eco di Pier Paolo Pasolini, soprattutto per un sentimento di sottofondo che più volte traspare: un certo «rispetto per ciò che viene prima», e cioè un passato e una tradizione che non possono essere guardati con infondato senso di superiorità. Colpisce, in proposito, un appunto vertiginoso sul rapporto con il padre e la sua civiltà contadina (l’autore è figlio di contadini lucani di Rotonda emigrati a Zurigo). «Non siamo soliti farci carezze, nella mia famiglia contadina. (…) Oggi però, vedendo mio padre tremante nel letto, gli ho accarezzato la testa — era come assente nel suo dolore. Eppure ha trovato la forza di dirmi con gli occhi chiusi e con voce esile: “Nun me tuccà ca me dola tutto”. Sin da ragazzo la mia rivoluzione è stata quella di combattere questa durezza contadina con il calore. Ho continuato ad accarezzarlo sfidando una grande civiltà cadente con la mia civiltà minore, sentimentale, e dunque fragile, decadente». La fragilità e l’inconsistenza del tempo non impediscono però l’avvenimento e il racconto di istanti di bene, piccole «storie di vita buona» che si ritrovano a essere, per chi legge, punti di speranza. Di Consoli semplicemente annota, non aggiunge. È la vicenda in sé a generare il giudizio, come in questa piccola nota sull’incontro con un mendicante, in cui l’impatto con la fragilità altrui diventa occasione di riscoperta della propria. «Gli ho dato prima due euro, poi cinque. Ma non voleva staccarsi. Si è messo a piangere, non ce la faceva più. Allora gli ho messo le mani sulle spalle, e gli ho chiesto come si chiamasse: “Mimmo, ascoltami, anche io non ce la faccio più, ma dobbiamo ancora lottare”. Piangeva come un bambino. La gente ci guardava. “Scusatemi lo sfogo dottò”. (…) L’ho abbracciato forte, e le sue lacrime mi hanno bagnato la faccia. (…) Poi mi ha detto: “Pregherò per voi”. Allora gli ho preso il viso tra le mani e mi sono scoperto senza difese. “Sì, Mimmo, prega per me”. Eppure, proprio nella fragilità e nell’orizzonte piccolo del tempo, è possibile l’incontro con un orizzonte più ampio, anche solo attraverso una lettura inusuale. “Ho letto attentamente un discorso del Presidente Aldo Moro. Un discorso ricco, articolato, difficile, affascinante, ambizioso, che pretende in chi lo legge — anzitutto per il suo bene — un impegno non da poco. Eppure, una volta superate pigrizia, svogliatezza e superficialità, un discorso di Moro apre immediatamente scenari nuovi, soprattutto nel metodo. E il metodo di Moro è enorme: non perdere mai di vista l’orizzonte più largo, la direzione del cammino e i grandi obiettivi, nonostante si sia costretti dalla natura umana e dalle contingenze della politica a stare sorvegliatamente nelle bassezze, negli orizzonti brevi e nelle controversie personalistiche». È fatta di impennate come questa la lettura di Diario dello smarrimento, una lettura che insieme inquieta e conforta. Inquieta perché è il frutto di una ricerca senza strade, rabbiosa e «viscerale» (altra parola chiave nella poetica di Di Consoli); conforta perché riconosce e inquadra ciò che vale e ciò che resta nel flusso del consumo e del sentimento che passa. Come in questo accorato appello, che richiama, forse non per caso, la tradizione cristiana: «Perdonare è la più alta forma di civiltà. Fare propria con pietà cristiana l’oscura voragine di chi ti ha fatto del male è ciò che rende moralmente superiore un uomo. È difficilissimo; ma, ogni volta, bisogna provarci».

di Giuseppe Suriano