Il racconto dell'epidemia nei secoli

La malattia dell’animo

Umberto Boccioni, «Visioni simultanee» (1911)
02 maggio 2020

«La peste a Urana» di Raoul Maria De Angelis


Nasceva il 5 maggio 1908 a Terranova di Sibari (Cs) lo scrittore Raoul Maria De Angelis. La circostanza dell’anniversario della nascita di colui che viene considerato un “minore” della letteratura italiana, può servire a riportare l’attenzione sul suo romanzo La peste a Urana, pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 1943.

L’opera parla di una pestilenza in un non meglio precisato paese del mezzogiorno d’Italia, Urana appunto. La storia sembra di averla già sentita: il manifestarsi del morbo dapprima attraverso indizi quasi irrilevanti, le arance cadute, e il suo diffondersi nella calura meridiana «quando il solleone bruciava le erbe e disseccava il fiume» come «il filo esiguo e trasparente» d’acqua che «continuava a scivolare tra le spine e le argille». Segno di questo lento insinuarsi del male era anche la credenza che a diffondere il morbo fossero le lumache attraverso la loro bava. La città stessa «era invasa da un disgusto acido e il sole riluceva sui volti della gente con uno splendore maligno». La gente preferiva salutarsi da lontano «senza stringersi la mano. Ognuno temeva dell’altro, tutti chiusi, come implacabili nemici».

L’azione delle squadre sanitarie che irroravano le strade e le case di acido fenico rendeva l’aria ancora più irrespirabile e anche «il rumore dei chiodi piantati sulla porta d’ingresso» delle abitazioni dove si era verificato un contagio contribuiva non poco a creare un’atmosfera di desolazione e di sconforto tra i residenti.

Poi però, con il progredire del morbo, nella città si era fatto sempre più concreto il sospetto che i portatori della peste fossero proprio i topi. La presenza dei loro cadaveri un po’ dovunque a Urana, nei magazzini delle arance, «tra le feritoie dei tombini, nelle cunette» dimostrava chiaramente che essi erano la causa della epidemia come confermò autorevolmente «l’ispettore sanitario venuto dalla capitale». Nel romanzo i roditori vengono assimilati «a un vampiro avido di sangue» e paragonati a delle «bestie immonde», spinte «dal demone a propagare il contagio». Così contro di loro e contro la loro azione malefica si scatena una vera e propria caccia senza quartiere che vede la gente del posto compattarsi contro un nemico sicuro a dispetto dell’insicurezza che procurava il contagio.

In un articolo pubblicato su «La fiera letteraria» del dicembre 1948 in occasione della seconda ristampa del volume è lo stesso scrittore calabrese a fornire altri ragguagli sull’opera. Accanto al castigo della peste «da cui sono colpiti tutti gli abitanti della città», nel romanzo si parla di un’altra epidemia, collegata «al senso angoscioso di vita perduta, che prelude a una inevitabile catastrofe» e che trova la sua folle compensazione nella corruzione dei costumi degli abitanti di Urana.

Parallelamente al contagio infatti si diffonde e insinua tra di loro come una malattia dell’animo che piega la gente al vizio e al peccato. Non è questo un caso insolito. Già Tucidide, infatti, nel descrivere la peste di Atene del 430, che si era portata via anche Pericle, aveva notato la stessa cosa, osservando che «la pestilenza aveva segnato per la città l’inizio della dissoluzione (...). Nessuno era infatti più disposto a perseverare in quello che prima giudicava essere il bene, perché credeva che forse poteva morire prima di raggiungerlo» (La guerra del Peloponneso).

In questo stesso articolo De Angelis sottolinea anche un’altra circostanza, ovvero i punti di contatto che c’erano tra il suo romanzo e La peste di Albert Camus, che era uscito tre anni dopo il suo libro. Le somiglianze infatti sono numerose e non si limitano solo alla toponomastica — la città di «Urana» ha un nome così simile a quello della città algerina di «Orano», dove è ambientata la storia dello scrittore francese — o all’invasione dei ratti. Anche altri specifici episodi (per esempio le prediche dei due sacerdoti, don Ambrogio e padre Paneloux, la cattura degli evasi, la morte dell’istrione sulla scena) costituiscono altre eventuali  “concordanze” tra le storie. Tuttavia è la critica letteraria ed esperta di Camus Lucienne Jean-Darrouy a delineare un parallelismo più generale tra le due narrazioni. La studiosa e collaboratrice del mensile culturale «L’âge nouveau», che in quegli anni coltivava anche il progetto di tradurre in francese La peste a Urana, oltre a riconoscere all’opera di De Angelis «il beneficio dell’anteriorità», apre un’interessante prospettiva di lettura di entrambi i romanzi. Infatti dopo aver notato che «i personaggi dello scrittore italiano sono “a sangue caldo” mentre quelli di Camus sono “a sangue freddo”», precisa che, a proposito della peste, «Camus avrebbe sviluppato in maniera filosofica ciò che De Angelis aveva avvertito in maniera romanzesca, con una potenza e una verità espressiva considerevoli».

Un mese dopo questi interventi, a riprendere e a dare vigore alla querelle letteraria fu il quotidiano svizzero «Die Tat» che, combinando le affermazioni di De Angelis e le osservazioni di Jean-Darrouy, nel numero 15 del 16 gennaio 1949 sotto il titolo La peste è contagiosa [“Die pest ist ansteckend]”, avanzava, come era scritto nel sottotitolo dell’articolo a firma della scrittrice Percy Eckstein, «il sospetto di plagio da parte di Camus». Evidentemente oltre che la peste anche la polemica è contagiosa. Infatti sul n.39 del 9 febbraio 1949 «Die Tat» pubblicava una replica dello stesso Camus. La sua risposta è garbata ma decisa nel respingere ogni insinuazione e, volendo proprio cercare un modello, egli indica nel Diario della peste di Londra di Daniel Defoe la possibile lettura comune dalla quale poi sarebbero dipese le affinità e le somiglianze tra i due libri.

Al di là della disputa, è importante notare l’attenzione che Camus dedica al romanzo dell’italiano, il tema della peste non poteva non interessarlo anche nelle produzioni degli altri suoi colleghi. Inoltre nel caso del confronto di De Angelis con Camus è forse solo il caso di ricordare le parole di Borges a proposito delle ascendenze letterarie di un autore considerato “maggiore” e cioè che ogni «scrittore crea i suoi precursori» (Altre inquisizioni 1960).

di Lucio Coco