Lo straordinario contributo degli operatori delle Nazioni Unite

La forza costruttrice della pace

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29 maggio 2020

Era il 1948 quando l’Onu indisse la giornata internazionale per gli Operatori di pace, prevedendo probabilmente che nel mondo sempre ci sarebbe stato bisogno di portare pace e di quei Peacekeeping a cui originariamente fu legato il senso di questa celebrazione: a quei Caschi blu che da oltre 70 anni guidano le missioni di riappacificazione nelle tante aree martoriate del pianeta. Nonostante da qualche mese guerre e conflitti abbiano perso “posizione” nella borsa mediatica, violentemente rimpiazzati dal flagello pandemico, tuttavia, nelle periferie e nelle città di tante regioni del globo si continua a combattere. Ognuno la propria battaglia.

Per recuperare la profondità della parola pace e comprendere cosa significhi concretamente farsi carico di portarla nel mondo, occorre rifarsi all’etimologia di questo termine e riappropriarsi della sua valenza semantica.

«Pace deriva dalla radice indoeuropea pag, pak, il cui nucleo richiama il significato di piantare, conficcare e, quindi, fissare, stabilire — spiega Gioia di Cristofaro Longo, professoressa ordinaria di Antropologia culturale dell’Università La Sapienza di Roma e presidente e fondatrice della Lunid (Libera università dei diritti umani) —; non a caso è la radice del verbo latino pango, il cui participio passato, pactum, è illuminante». Lo è perché il patto rinvia ad un accordo preso al massimo livello di impegno da parte dei contraenti: proprio dal pacta sunt servanda degli antichi deriva, infatti, il carattere bilaterale o multilaterale del concetto di pace.

Certo, la cultura della pace, per essere concreta, deve liberarsi dalla deriva che la collega in termini quasi esclusivi alla guerra: se è incontestabile, infatti, che la pace è alternativa alla guerra, è altrettanto fondamentale definirne i significati costitutivi di autonomia e positività, nella loro accezione più ampia. A tal proposito è curioso che in ogni civiltà il riferimento alla pace rimanda a contenuti che coincidono con i valori più nobili della comunità.

Non c’è, dunque, un unico significato di pace, trattandosi di un concetto polisemantico e attivo: «La pace non è una parola, ma un comportamento» recita un antico detto africano. Ecco perché accettare la pace, intesa come ideale decontestualizzato, è limitante e fuorviante, in quanto, dal punto di vista simbolico, si rischia di svuotarla, di impoverirla della sua forza costruttiva e trascinatrice.

In questa prospettiva, è imprescindibile l’accostamento ai diritti umani, ambito, anche questo, nel quale si impone la necessità del superamento del divario tra piano teorico e pratico, purtroppo oggi largamente diffuso: in questa cornice si inserisce il contributo degli operatori di pace. Essi si identificano, innanzitutto, con coloro che, tramite il proprio agire, testimoniano la coerenza tra parole e fatti, tra princìpi dichiarati e pratiche messe in campo, traducendo il valore della pace in un’arte quotidiana. Sono persone che scelgono e aderiscono ad una condotta etica volta all’affermazione del bene: un bene per cui con comportamenti concreti si supera la genericità e l’astrattezza con le quali troppo spesso ci si accosta alla sfida della pace.

Questa umanità si fa portavoce, sia nelle dimensioni micro che in quelle macro, di una specifica volontà: quella di affermare i diritti di ogni essere umano, ritenendo questa la via maestra per la realizzazione di una vera cultura della pace. Strettissimo e imprescindibile, quindi, il rapporto con l’universalità dei diritti umani.

I mattoni con cui oggi tendiamo a costruire la struttura della pace sono contenuti nelle numerose Dichiarazioni e Convenzioni internazionali che hanno segnato il XX secolo, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 proclamata a New York dalle Nazioni Unite.

Non va, però, dimenticato che l’aspirazione ad individuare principi e valori condivisi a livello universale è molto antica. Per brevità citiamo solo due esempi: il Cilindro di Ciro, un documento del vi secolo a.c., rinvenuto tra le rovine di Babilonia nel 1879, e la Carta di Manden del 1222, proclamata nel giorno dell’incoronazione di Sundyata Ketia, sovrano dell’Impero del Mali.

Proprio perché è in gioco una tensione, insita nel nostro animo, occorre riviverla oggi, affrontando le piaghe delle innumerevoli forme di conflittualità, soprattutto, considerando che l’emergenza del covid-19 pone tutti noi di fronte a scelte e responsabilità inedite, per modalità e tipologia, prese di posizioni che impongono, in termini ancora più stringenti, risposte adeguate e coerenti sul piano dei valori.

«La pandemia ha agito come uno tsunami di imprevedibili ed inimmaginabili proporzioni — sottolinea Longo —. Una tragedia che, per dimensioni, ha coinvolto e riguarda direttamente milioni di persone: all’improvviso ha occupato la scena, a livello globale, imponendo all’umanità radicali, sostanziali cambiamenti nello stile di vita, nel campo del lavoro e della scuola, nell’approccio alla socialità e al prossimo, nell’organizzazione sociale ed economica, nel rapporto con sé e gli affetti più intimi, nella relazione con il tempo e gli spazi personali, riducendo all’essenzialità l’apertura e gli scambi con l’esterno, le occasioni di incontro e spostamento».

In questo frangente, a fronte di un evento mai registrato in tempi moderni, si è assistito ad uno scatto di generosità e solidarietà da parte della collettività, a innumerevoli manifestazioni di solidarietà alle quali si è accompagnata l’affermazione di inusuali forme di riconoscimento reciproco in quanto comunità. «Dal dramma del coronavirus è avanzato, come un’onda, un sentimento di riscossa, caratterizzato dalla riscoperta dei valori fondativi di una cultura di pace — spiega ancora Longo — tutti noi, ora, abbiamo l’opportunità di farci autentici operatori di pace nella direzione del bene, della giustizia, della libertà, del rispetto, della solidarietà, senza i quali non esiste alcuna condizione di stabilità e riappacificazione». Chi sono, dunque, gli operatori di pace tra noi? «L’identikit ruota attorno ad alcuni assi comportamentali: l’inclusione al posto dell’emarginazione, l’altruismo al posto dell’individualismo, la cura al posto dell’indifferenza, l’accoglienza al posto del rifiuto» specifica Gioia Longo.

È, qui, inevitabile il parallelismo tra la cultura della pace e la felicità, intesa non in termini banalizzanti e miracolistici, ma come sistema culturale complessivo, fatto sociale totale, attorno al quale merita un approfondimento il pensiero di Socrate e di Aristotele: il primo nell’affermare che la felicità consiste nella conoscenza di ciò che è bene per noi, il secondo nel sostenere che coincide con il desiderio di rendere “buona” la nostra esistenza.

«Già nella filosofia socratica e aristotelica si intravede l’orizzonte di una cultura della pace come tensione rivolta alla ricerca del bene comune si tratta di un ribaltamento valoriale profondo, un’occasione da cogliere e valorizzare, una prospettiva etica da assumere in tutta la sua valenza e potenzialità» conclude Longo.

di Silvia Camisasca