Fame - Yemen del nord

L’ultimo nemico è la carestia

Un'immagine dell'inondazione dell'aprile scorso (foto da Facebook e sito di Intersos)
30 maggio 2020

Dallo schermo del computer Stella sorride. «Sono contenta di parlare con qualcuno. Sono qui sola da giorni». E non è per il covid-19, anzi: «Quando sono entrate in vigore le restrizioni in Italia, parlando con la mia famiglia, con i miei amici, ho pensato che stessero capendo qual è la mia vita di tutti i giorni: per gli umanitari che lavorano in zone di conflitto, non uscire di casa, vivere il momento della spesa come il picco della settimana, con l’eccitazione di poter vedere gente, è una cosa normale. Ora sono in ufficio, ma vede la scala qui dietro a me? Porta alla mia casa».

Non c’è traccia di rivendicazione o lamentela, nella voce di Stella Pedrazzini, 35 anni, coordinatrice di programmi per Intersos nello Yemen del Nord. «La felicità di svegliarsi al mattino e sapere che stai facendo qualcosa di grande, ti permette di sopportare un forte compromesso: non veder crescere una nipotina, se non attraverso il video; vedere gli anni che passano per i tuoi genitori e non avere ricordi, se non quelli di una telefonata via Skype o WhatsApp. Quando, a 25 anni, ho detto ai miei “vado in Palestina”, è stata una tragedia. Come ogni comunicazione di un nuovo lavoro in un nuovo luogo. Io cerco di mitigare questa cosa tutti i giorni e un po’ funziona, perché mi vedono serena: perdi tante cose dalla vita normale, ma c’è questa vita anormale che dà talmente tanto».

È iniziata nel 2010, questa vita anormale; quando Stella, da Melzo, hinterland milanese, è partita per il Medio oriente: quattro anni in Palestina, poi Giordania, Iraq, Libano. «Da marzo 2018 sono in Yemen. Prima ad Aden, nel Sud, dove mi occupavo di un progetto di protezione rivolto agli sfollati yemeniti. Da febbraio, a Sana’a, la capitale dell’area che dal 2015 è controllata dal governo de facto delle milizie huthi». Da cinque anni lo Yemen è devastato da una guerra che lo ha spaccato in due: «Al Sud c’è il governo sunnita di Hadi internazionalmente riconosciuto, appoggiato dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita; al Nord le milizie huthi, sciite. Poi ci sono altre fazioni in altre aree, con cui noi operatori umanitari dobbiamo dialogare. Ciascuno ha le sue regole e impone le sue restrizioni, è molto complicato».

Intersos Yemen è una missione gestita solo da donne. «Dal capo missione Evelyn, a tutte le coordinatrici: Chiara ed io, programmi Sud e Nord, Luma, risorse umane, Loubna, protezione. Siamo donne forti, che hanno scelto una vita diversa, in prima linea; che la soddisfazione la trovano utilizzando le proprie capacità dove necessario, mettendosi al servizio di chi più ne ha bisogno». E qui 24 milioni di persone, l’80 per cento degli abitanti, hanno bisogno di assistenza umanitaria. La malnutrizione uccide più delle bombe, dicono gli analisti di Intersos: quasi 16 milioni di persone, oltre il 53 per cento della popolazione, sono in una condizione di «insicurezza alimentare severa» e si prevede che nel 2020 il numero di bambini sotto i cinque anni con «malnutrizione severa media» avrà superato il milione e 900 mila, mentre oltre 325 mila saranno i piccoli con malnutrizione severa acuta. «La fame in Yemen è un problema storico, ci sono molte aree remote dove si soddisfano i bisogni di base e niente di più, e a volte neanche quelli in modo appropriato», spiega Stella Pedrazzini. «La situazione è devastante, tragica, non riguarda solo i bambini, ma anche donne, uomini, anziani. L’accesso al cibo era limitato già prima della guerra».

I progetti che Stella coordina, riguardano assistenza medica e nutrizionale, tutela di rifugiati e migranti, accesso a educazione e corsi professionalizzanti, assistenza psicologica e protezione per le categorie più vulnerabili, interventi Wash, un acronimo che sta per acqua, sanità e igiene. «Sulla malnutrizione svolgiamo un’attività di base attraverso squadre mobili o attraverso il sostegno ai diversi tipi di strutture sanitarie sul territorio. Il pacchetto va dallo screening materno e dei bambini per l’identificazione dei casi acuti severi e acuti medi, fino a una rete di coordinamento con altre organizzazioni o istituzioni governative, che propongono servizi di trattamento attraverso i Centri di nutrizione terapeutica e, quando serve, l’ospedalizzazione».

Ma poi si torna nella quotidianità ed è molto difficile uscire dal cerchio della fame. «Una parte importante del nostro intervento è restituire dignità alle persone, dare loro la capacità di provvedere alla propria famiglia e a se stessi. Tentiamo di dare risposte integrate attraverso la tutela delle vittime di abusi, l’accesso alle cure mediche, l’organizzazione di corsi di formazione per svolgere attività che generino entrate, l’educazione e la consapevolezza alimentare. Promuoviamo buone pratiche di alimentazione e di allattamento, perché le donne non hanno chi glielo insegni o le segua durante la gravidanza; spesso generano bambini malnutriti, non hanno il latte per sfamarli o non sanno come gestirlo». In ogni caso «in famiglie con 10/15 figli è difficile provvedere a una corretta alimentazione: si tenta soprattutto di mantenere in forze l’uomo, che deve andare a lavorare». Ma non è detto che questo significhi portare i soldi a casa: «C’è la piaga sociale del qat, pianta allucinogena che ha sostituito le piantagioni di caffè per le quali lo Yemen era famoso. Il lavoratore giornaliero riesce a guadagnare una decina di dollari (con edilizia, trasporto di materiali, pulizie, lavaggio macchine…) che non sempre arrivano ad essere spesi per le necessità della famiglia: piuttosto, vengono investiti in una porzione di qat. È un mercato legale, un rituale sociale; tutti gli accordi, gli affari fra uomini, perfino gli incontri nei ministeri si fanno masticando qat».

Corsi, lavoro, socialità, tutto è stato stravolto dal coronavirus e dalle misure di distanziamento. Considerando che la malnutrizione mina il sistema immunitario e moltiplica esponenzialmente, soprattutto nei bambini, la possibilità contrarre infezioni mortali e che la guerra ha distrutto il 49 per cento delle strutture sanitarie, da infezioni e pandemie ci si possono aspettare solo esiti catastrofici. E non si tratta solo del coronavirus: «Colera, dengue, malaria, difterite sono presenti nel paese, tornano a ondate stagionali. Quest’anno è riapparsa anche la H1N1» la cosiddetta peste suina. Il tutto sotto le bombe, con tregue ripetutamente dichiarate e poi violate. Eppure, racconta Stella, «quando c’è stata la possibilità di prendere l’ultimo volo che usciva dallo Yemen, prima della chiusura per il virus, mia mamma, dalla Lombardia al picco del contagio, mi ha detto: “ma no, stai lì che è più sicuro”». Il che rende le cose ancora più dure: «Alla lontananza dalla famiglia non ci si abitua mai e se non hai un limite temporale, un obiettivo, è più complicato».

Nel frattempo, lei non rinuncia a progettarne una sua, di famiglia, purché non la distolga dalla missione della vita. «Ho visto tante famiglie nascere ma rimanere nel settore. Un uomo e una donna che hanno esigenze e passioni in comune, che si trovano, si sposano, fanno figli e vanno ad operare in aree classificate Family Duty Stations: Libano, Giordania, molte parti dell’Africa, paesi in cui non si fa assistenza, ma sviluppo e quindi è normale avere una famiglia. Certo non lo Yemen, qui non ci vieni con i bimbi».

Spostarsi non sarebbe un problema, e fino ad oggi si ritiene fortunata. «Vedo il Medio oriente come una seconda casa, mi sono sempre sentita accolta, ho trovato persone meravigliose in una cultura meravigliosa. Adesso questa vita mi sembra il massimo della mia aspirazione; ma un giorno, trovare la persona giusta e avere una famiglia è un’idea che mi appartiene… Vengo da un paesello, mia mamma mi dice sempre: non si può essere felici da soli, come fai a essere felice? Io però le rispondo che non per forza si è felici in due. Quando sei così tanto a contatto con la miseria e la sofferenza, ogni giorno è una benedizione. Le cose troppo a lungo termine mi spaventano. La mia vita è fatta di contratto in contratto, di anno in anno. La cosa che conta è essere in pace con se stessi».

di Federica Re David