Gustav Klimt ed Egon Schiele vittime nel 1918 della terribile influenza spagnola

L’arte spezzata

Gustav Klimt, «Pallade Atena» (1898)
27 maggio 2020

La domanda è d’obbligo: quali altre eccelse opere avrebbero prodotto Gustav Klimt ed Egon Schiele, entrambi austriaci, se, nel 1918, l’influenza spagnola — novella Atropo — non ne avesse reciso il filo della vita? Klimt morì il 6 febbraio, all’età di 56 anni; Schiele, il 31 ottobre, a soli 28. Pupillo di Gustav, Egon — uno dei maggiori artisti figurativi del primo Novecento — nel breve arco della sua esistenza era riuscito a dare forma a un impressionante corpus di opere: 340 dipinti e 2800 tra acquerelli e disegni. Quella pandemia, comunemente conosciuta come “la spagnola”, uccise, fra il 1918 e il 1920, decine di milioni di persone nel mondo. Il virus arrivò ad infettare anche alcuni abitanti di remote isole dell’Oceano Pacifico e del Mar Glaciale Artico. In alcune annotazioni, come pure in conversazioni con amici e ammiratori, Schiele aveva espresso il sentore che la sua esistenza non sarebbe stata di lunga durata. E fu tale sentore, che sempre lo accompagnava a mo’ di mentore, che lo indusse a procedere a ritmo incalzante nel realizzare opere: aveva tanto da esprimere ma così poco tempo per farlo. Fu appunto “la spagnola” ad interrompere, spietata e inclemente, quel potente flusso creativo.

Il suo lavoro spicca per intensità espressiva, per la lucida introspezione psicologica, come pure per la manifesta espressione di un disagio interiore che prepotente s’impone soprattutto nei suoi numerosi ritratti e autoritratti. I soggetti sono prevalentemente corpi contorti, nonché incompiuti, ciò a significare una sete inappagata di completezza formale concepita come irrinunciabile garanzia di solidità e di equilibrio. A colpire sono anche gli sguardi dei soggetti che dominano le tele. Nella Donna inginocchiata con vestito rosso (1911), l’espressione degli occhi è così intensa che sembra penetrare la superficie del quadro e sfidare lo spettatore a reggere lo sguardo. Una sfida che sottende il rapporto conflittuale che l’artista aveva con il mondo esterno corrotto da brutture e squilibri. Ecco allora che le sue opere, come assorbendo questa temperie, ne riverbera le storture e i contorcimenti. I corpi ritratti tradiscono un dolore interiore: una serena e confortevole linearità e armonia pare proprio che sia loro negata. E non poteva mancare, nei suoi dipinti, il tema della morte, che lui sentiva sempre così vicina. Anche a tale riguardo le sue composizioni rivestono un alto valore simbolico. Gli stessi paesaggi — caratterizzati da alberi secchi e avvizziti — sono intesi come strumento d’elezione per trasmettere un messaggio di declino e di disfacimento. E quando scoppia la prima guerra mondiale, il sentimento della fine non può che imporsi in tutta la sua drammaticità. Per lui il conflitto rappresenterà la conclusione di un’epoca, con il crollo definitivo dell’impero asburgico. Questo scenario viene raffigurato da Schiele ne Il Mulino, dove una fragile struttura in legno è distrutta dalla crescente forza dell’acqua che spazza via qualunque cosa incontri nel suo inarrestabile procedere.

Era nel pieno della maturità artistica Gustav Klimt quando dovette soccombere al virus. A differenza del suo pupillo, si agitava in lui un sentimento travolgente del vivere che lo portava a concepire la morte come un’entità maligna che ogni giorno andava allontanata, pur nella consapevolezza che ogni giorno che passa essa, in realtà, inesorabilmente si approssima. Lui la morte non la sentiva vicina, la immaginava lontana. Se la augurava lontana. L’artista, come ha evidenziato il critico Johannes Dobai, può essere considerato «colui che portò alle loro più radicali conseguenze quei fenomeni dell’arte del tempo comunemente indicati come “simbolismo” e come “pittura dell’Art Nouveau”». La sua grandezza consiste proprio nell’aver saputo elaborare una felice sintesi di queste due fondamentali tendenze artistiche dell’epoca.

Sempre in contrasto con i severi e austeri canoni accademici, Klimt nel 1897 fondò, insieme ad altri diciannove artisti, la Secessione viennese, attuando anche il progetto di un periodico del gruppo, “Primavera sacra”, del quale verranno pubblicati 96 numeri, fino al 1903. Gli artisti della Secessione aspiravano a portare l’arte fuori dai confini della tradizione sentita come stantia e retriva, e a inserirla in un florilegio di arti plastiche, design e architettura, con il dichiarato obiettivo di valorizzarne le potenzialità creative. Il simbolo del Secessionismo era la Pallade Atena, dea greca della saggezza, che Klimt raffigurò nel 1898. Quello dell’artista fu un genio provocatore. Esso si manifesta in tutta la sua forza nel Fregio di Beethoven. Concepita per la quattordicesima mostra secessionista viennese allestita nel 1902 nei locali del Palazzo della Secessione, l’opera è un trionfo di immagini visionarie ed enigmatiche, simboleggianti le angosce e le aspirazioni dell’uomo moderno. Essa è esemplare testimonianza di un talento dal dinamismo vulcanico, insofferente nei riguardi di stereotipate interpretazioni di soggetti e temi e ansioso di guadagnare all’espressione artistica terreni inesplorati e inediti orizzonti. Celebre è il “periodo aureo” di Klimt, caratterizzato dalla spiccata bidimensionalità dello stile che pervade le opere. Prevalgono in questo contesto le figure femminili, che il suo pennello ammanta di un’armoniosa sensualità. Tale fecondo periodo si chiuse, nel 1909, con l’esecuzione di Giuditta ii, l’eroina ebrea che liberà la città di Betulia dalla dominazione ebrea.

Anche per Klimt lo scoppio della prima guerra mondiale rappresentò la fine di un’epoca. Il mito della Belle Epoque era ormai giunto al tramonto, come pure si andavano appassendo i fasti dell’impero austro-ungarico. E il conflitto venne a coincidere con una profonda crisi interiore dell’artista, che mise in discussione la stessa legittimità della propria arte, soprattutto quando venne in contatto con le opere di artisti quali Van Gogh, Matisse, Toulouse-Lautrec. A fronte di questo scenario, Klimt si riprometteva di rilanciare la propria produzione impegnando nuove forme di espressione e investendo nuove dimensioni stilistiche: la “spagnola” non gli permise di donare alla sua arte una seconda giovinezza.

di Gabriele Nicolò