A sessant’anni dalla morte di Boris Pasternak

L’arte e il «delirio dell’esistenza»

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29 maggio 2020

«Conosco persone che sono vissute, sopravvissute grazie ai Suoi versi, grazie alla percezione del mondo che i Suoi versi comunicavano (…) Ha mai pensato a questo? Agli esseri umani che sono rimasti esseri umani soltanto perché con sé avevano le Sue parole, i Suoi disegni e pensieri? Che i Suoi versi venivano letti come preghiere?». Così scriveva a Pasternak un altro dei grandissimi protagonisti della letteratura russa del XX secolo, Varlam Šalamov, in una lettera del 24 dicembre 1952. Era stato appena rilasciato dal campo, ma era ancora al confino nell’inferno della Kolyma; la prospettiva di poter tornare libero nella Russia europea era ancora lontana, ma quello che gli interessava nella vita, quello che contava per vivere, nell’esperienza di uno che era appena scampato quasi per miracolo dai campi, era parlare della poesia, perché proprio la poesia era quello che gli aveva permesso di sopravvivere e proprio grazie alla poesia pensava di poter continuare a vivere. E in questo riconosceva che i versi di Pasternak erano stati una fonte di vita. La pubblicazione del Dottor Živago era ancora lontana, e il Nobel altrettanto, ma questa lettera, per Pasternak, era come un’incoronazione anticipata che nessuno avrebbe potuto impedire, come sarebbe successo qualche anno dopo con il Nobel, era un riconoscimento che nessuno avrebbe potuto mettere in dubbio come sarebbe successo quando qualcuno attribuì il Nobel e l’uscita del Dottor Živago a chissà quali trame politiche: Pasternak era già grande al punto che leggerlo era questione di vita o di morte; di più: era questione di riuscire o meno a scoprire un senso nella vita e ad attingere a questo senso, all’eterno. Non era dunque semplicemente un grande, ma lo era perché era poeta, era l’artista nella sua stoffa ultima: dove l’arte diventa preghiera e segno di una comune umanità.

Non è un caso che uno dei giovani che venne ritratto il giorno dei funerali di Pasternak mente portava il coperchio della sua bara, a testimonianza di una sorta di assoluta e finale famigliarità, fosse quell’Andrej Sinjavskij che avrebbe scritto su di lui alcune cose ancora oggi insuperate e avrebbe detto poi che «l’arte è sempre, in misura minore o maggiore, una preghiera improvvisata». E forse la non casualità si fa ancora più evidente se pensiamo che questa cosa Sinjavskij la scrisse all’inizio degli anni Settanta quando stava anche lui in un campo.

La condizione estrema, le circostanze che sembravano poter soffocare ogni creatività avevano invece riportato alla luce l’essenziale di cui vive l’uomo e di cui vive la poesia.

Pasternak era esattamente questo andare all’essenziale, secondo una sua unità ultima che nessuna divisione, decomposizione, frammentazione può anche solo lontanamente minacciare; così Sinjavskij, scrivendo di lui, aveva detto che la peculiarità della poesia consiste nel «mostrare il mondo nell’organica unità delle parti che lo compongono», nella continua preoccupazione di «estrarre il comune denominatore delle azioni umane, dei tramonti del sole e delle vie cittadine»: insomma, caratteristica del poeta è la ricerca del senso unitario del reale, questa capacità di dare spazio a tutto e di riassumere tutto senza che su tutto regni quel nichilismo ultimo che è l’assenza di senso. E infatti un altro grande interprete di Pasternak, Angelo Maria Ripellino, aveva scritto della sua poesia: «Certe quartine sono stipate di oggetti come un vagone dei traslochi, ma il disordine è solo apparente».

Questa sete di totalità è così connaturale per il poeta che l’imperativo che egli detta alla sua poesia è esattamente: «Non rinunciare all’ampiezza»; ma a dispetto delle imposizioni di un regime che voleva fare dell’arte uno strumento di trasformazione del reale e a dispetto anche di un’immagine che vuole trasformare la genialità dell’artista in un arbitrio assoluto, la ricerca di questa totalità per Pasternak non fu mai l’imposizione di nulla che le cose stesse non avessero già dentro di loro; perché anzi la forza del poeta è nel «saper non deformare la voce della vita che echeggia dentro di noi». L’immagine del poeta che vive in un suo mondo altissimo, ma irreale è totalmente estranea in questo senso a Pasternak che, alla sua poesia dice: «Tu non sei la prestanza d’un cantore mellifluo, / tu sei un’estate con un posto in terza classe, / tu sei un sobborgo e non un ritornello».

Il poeta non ha bisogno di forzare in nulla la realtà, semplicemente sa vederla così per uno sguardo che lo costituisce e lo porta a vedere l’essenza sepolta delle cose: «Forse solo il fango voi vedete, / e non balza ai vostri occhi il disgelo? / Non luccica per i canali / come un trottatore pomellato?».

Il poeta non ha dubbi che questa sia la realtà e non, come gli dice il potere, un ripiegarsi su un intimismo decadente; il poeta è certo che questa è la natura dell’uomo, perché tanto gli testimonia la storia immemoriale dell’umanità, che gli consente di vedere «nella sfinge / non una nostra incongruenza: non le congetture / d’un Greco messo in imbarazzo, non l’enigma, / ma un antenato»; e tanto gli dice la sua esperienza, per la quale risulta evidente «quanto sia più modesta di noi stessi / la nostra immortalità d’ogni giorno».

E là dove non bastano la storia e l’esperienza personale interviene la natura, con il suo miracolo infinito, che ci sorprende ogni giorno e rende la vita dell’uomo e il mondo in cui vive uno spettacolo irriducibile a ogni misura, sempre uguale e sempre diverso: «Questo è davvero un novello miracolo, / come altre volte è di nuovo la primavera. / eccola, è lei, è lei. / Questo è il suo incanto e la sua meraviglia (…) Il discorso della piena è il delirio dell’esistenza».

Davanti a questa lezione, davanti a questo «delirio dell’esistenza», il poeta non ha dubbi che questa sia la realtà, perché questa è la vita che si trova davanti e non la vita che si è costruito o che gli hanno imposto: «Voglio, come un sogno alla luce del sole, / rammentare la vita e rimirarla in volto. / Non invitata, essa inserì dapprima / il gusto di grandi principi in quel che accadeva. / Io non li ho scelti e non dipende dai nervi / se non li bramavo, ma li presentivo».

Se questa è la realtà, se il «gusto di grandi principi in quel che accade» è qualcosa che esiste come «non invitato», ma presente, il poeta e, con lui, l’uomo non possono fare altro che dire: «In tutto io desidero giungere / all’essenza: / nel lavoro, nel cercare la via, / nella discordia del cuore. / All’essenza dei giorni trascorsi, / alle cause loro, / alle basi, alle radici, / al nucleo».

È semplicemente la vita, ma — bisogna ricordarlo — non una vita fatta di oggetti esterni, perché tutto, la storia come la natura, come gli oggetti che stipano il «vagone dei traslochi» di Pasternak, tutto, in realtà, è la vita «che echeggia dentro di noi»: tutto quanto accade e ci circonda assume in lui una dimensione personale. La stessa natura viene così concepita come la possibilità di un incontro personale; era quanto lo stesso Pasternak diceva di avere capito visitando Venezia, dove ebbe «la fortuna di imparare che si può ogni giorno andare a un appuntamento con un pezzo di spazio costruito, così come con una persona vivente».

Ogni particolare della vita appare così, agli occhi del poeta, come un’occasione di incontro fra gli esseri e come un’occasione di amore, perché «l’onnipossente Dio dei dettagli» è anche «l’onnipossente Dio dell’Amore».

Non è che Pasternak non si occupasse di grandi cose, che non fosse capace di districarsi nelle complicazioni della storia, tutt’altro: aveva una capacità di giudizio che rese il suo Živago (con la denuncia dei disastri della collettivizzazione) inaccettabile per il sistema sovietico; però anche questa capacità di giudizio non era una cosa sorta negli ultimi tempi, sotto le sollecitazioni della guerra fredda: all’inizio degli anni Trenta, con Hitler appena salito al potere, aveva saputo identificare un cuore comune ai due totalitarismi definendolo «il bestialismo del fatto». Ma non era questo che gli interessava innanzitutto; non era questa l’essenza che cercava: mirava a qualcosa di molto più concreto e vero della storia che i potenti pretendevano di costruire e che poi li lasciava con niente in mano. Anzi, se poteva pronunciare giudizi tanto precisi e inusuali sulla storia era proprio perché quell’essenza più radicale e profonda gli era entrata nel cuore e negli occhi e allora poteva capire perché uno dei personaggi più affascinanti del suo Živago, quello Strel’nikov che era partito come una generoso combattente della rivoluzione, fosse diventato poi il fucilatore (questo è il significato del soprannome Strel’nikov): «Possedeva in misura rara purezza morale e senso della giustizia, era acceso dai più nobili sentimenti. Ma per essere uno scienziato che apre nuove vie, alla sua intelligenza mancava il dono del fortuito (…) Nello stesso modo, per operare il bene, alla sua coerenza di principi mancava l’incoerenza del cuore, che non conosce casi generali, ma solo il particolare, ed è grande perché agisce nella sfera del piccolo».

Quello che poteva cambiare la storia, e che di fatto l’aveva cambiata, era esattamente la scoperta del particolare, l’irruzione in essa di un particolare che assumeva un senso universale. È una pagina immortale del Dottor Živago, dove si ripercorre il significato della venuta di Cristo nel mondo: «Che profondo significato in questo cambiamento! In qual modo per il cielo (perché è con gli occhi del cielo che bisogna valutare tutto ciò, perché tutto ciò si compie al cospetto del cielo, nella divina cornice dell’unicità), in qual modo dunque una singola circostanza umana, insignificante dal punto di vista dell’antichità, diventa invece per il cielo equivalente all’emigrazione di un popolo intero? [gli ebrei che attraversano il Mar Rosso]. Qualcosa nel mondo era mutato, scomparsa Roma, cessava il potere del numero, l’obbligo imposto a ciascuno, con le armi, di vivere come tutti gli altri, come la massa. I capi e i popoli spariscono nel passato. Al loro posto sorge il rispetto della personalità, l’affermazione della libertà. Una singola vita umana è diventata la storia di un Dio, ha riempito del suo contenuto tutto lo spazio dell’universo. Come si dice in un cantico dell’Annunciazione, Adamo voleva diventare Dio e sbagliò, non lo divenne, ma ora Dio diventa uomo per fare di Adamo un Dio (“Dio si fa uomo per fare di Adamo Dio”)».

Era questa scoperta, prima di ogni giudizio politico, che rendeva Pasternak così estraneo non solo al sistema sovietico, ma ad ogni sistema che pretenda di avere in mano la formula dell’uomo e della società; ed era questa scoperta che lo rendeva poeta, cioè uomo capace di parlare agli uomini di quello per cui vale la pena vivere: la poesia, grazie alla quale chiunque può sopravvivere in un campo e della quale egli aveva detto che «resterà sempre quella cosa, più alta di tutte le Alpi di celebrata altezza, che giace nell’erba, sotto i piedi, così che bisogna solamente chinarsi per vederla e raccoglierla da terra».

di Adriano Dell’Asta