Nell’ultimo libro di Delphine De Vigan

Jérôme e l’immagine del Prima

Lorenzo Mattotti, «Patient zéro» (2016, particolare)
08 maggio 2020

Nella nebbia di lettere e di parole che si addensano nella sua testa, Michka non riesce più a orientarsi. Lei, che per tutta la vita è stata correttrice di bozze in una grande rivista e che al caos del mondo ha sempre opposto una parola gentile, non riesce più a raccapezzarsi nel turbinio incontrollabile in cui è finita. Complici anche alcuni intoppi nelle attività quotidiane, Michka capisce che è arrivato il momento di trasferirsi in una residenza per anziani. Anche se sa che nell’ospizio sarà una vita a metà («qui aspettare è già di per sé un’occupazione») vende il suo appartamento per pagarsi la retta e si trasferisce.

Il suo nuovo tempo nella stanzetta asettica — nel ritmo rallentato e insipido delle giornate “da vecchia”, tra incubi sulla terribile direttrice e le stravaganze degli altri ospiti — è però arricchito dalle fedeli visite di Marie, una ex vicina di casa a cui ha fatto da seconda mamma; «per la prima volta nella mia vita ho cominciato ad applicarmi a qualcun altro, voglio dire di qualcuno che non ero io. È questo che cambia tutto, sai, Marie. Aver paura per qualcun altro, qualcun altro che non sei tu». E dalla novità delle sedute settimanali con Jérôme, un giovane ortofonista che ha il compito di aiutarla a ritrovare le parole.

È un romanzo molto interessante quest’ultimo di Delphine De Vigan, Le gratitudini (Torino, Einaudi, 2020, pagine 151, euro 17.50, traduzione di Margherita Botto), scrittrice francese che parla di vecchiaia — e di case di riposo — in un modo che è allo stesso tempo onesto e vero, ma anche rispettoso e poetico.

Nell’ospizio non c’è nulla che non vada, ma tutto quel rigirarsi tra sonnellini, passettini e uscitine si rivela difficile; quell’efficienza degli inservienti nel fare prima e meglio quello che gli ospiti sono ancora in grado di fare, che rischia di potare senza possibilità di far ricrescere.

Efficace nel raccontare il lasciarsi andare di Michka, De Vigan è particolarmente brava nel narrare il tempo dall’ottica dei due giovani che le stanno accanto in questa ultima fase della vita. Marie, innanzitutto, che le è debitrice di quel calore e di quella presenza senza i quali è veramente difficile crescere. Marie capace di mettere a fuoco uno dei grandi problemi degli ospiti, la distanza fisica («Qualcuno vi abbraccia? [...] Quando mi immagino da vecchia [...] a sembrarmi più dolorosa, più terribile, è l’idea che non mi tocchi più nessuno. La scomparsa progressiva o brusca del contatto fisico»).

E poi lui, Jérôme, che dopo dieci anni di carriera non si è ancora arreso alla routine del suo lavoro; che quando si trova davanti un nuovo ospite la prima cosa che fa è andare a cercare «l’immagine del Prima. Dietro lo sguardo vago, i gesti incerti, il corpo curvo (…). Come uno tenderebbe a intravedere uno schizzo originale sotto un rozzo disegno a pennarello (…). Li osservo e penso: anche lui ha preso treni, metrò, ha camminato in campagna (…) chiacchierato a ruota libera. A pensarci mi commuovo. Non posso fare a meno di dare la caccia a quell’immagine, tentare di risuscitarla».

Jérôme che sa come a una certa età tutto ciò che si perde è scomparso per sempre, per cui l’imperativo è quello di non mollare. «Bisogna combattere. Parola per parola. Palmo a palmo. Non cedere niente. Né una sillaba né una consonante». Perché, a voler guardare, basta un attimo per capire quando l’ospite ha rinunciato. A raccontare, a spiegare. A vivere.

I due giovani aiuteranno Michka a realizzare il suo ultimo desiderio, dire grazie a chi, tanti anni prima, le ha salvato la vita nascondendola (evitandole così le camere a gas in cui moriranno i suoi genitori) rischiando la propria. Eppure non è questo il regalo più grande che Marie e Jérôme le hanno fatto. Il regalo più grande è stato capire che quando non c’è più nulla da fare o da dire, ciò che serve è solo il tempo di sedersi lì, vicino. Prendendo la mano dell’anziano nella propria.

di Silvia Gusmano