In «Tutto chiede salvezza» di Daniele Mencarelli

Io e i miei fratelli

Josef Förster «Uomo che vola con i trampoli»
04 maggio 2020

«Ma non posso sostituire gli occhi, non posso negare alla mia natura di fare il suo corso. Chi può togliermi la sofferenza? Quale compito devo svolgere per non sentire più il dolore degli altri? Sarà la maturità, il diventare adulto, a dare durezza alla mia pelle?».

Ora sussurrate, ora gridate con la forza di un tuono che perfino quando è muto sconquassa ciò che incontra, si rincorrono le domande nell’ultimo libro di Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza (Milano, Mondadori 2020, pagine 195, euro 19). Domande che hanno il coraggio di raccontare uno degli aspetti della vita di cui ancora si fatica a parlare davvero. Perché, semplicemente, si fa fatica a guardarlo dritto negli occhi per ciò che è.

È il giugno 1994, estate dei mondiali di calcio targati Usa, e Daniele ha vent’anni. È allora che, in seguito a una violentissima esplosione di rabbia, viene sottoposto a una settimana di trattamento sanitario obbligatorio. Giorno 1, giorno 2, giorno 3, ..., giorno 7 di internamento coatto nel reparto di psichiatria. Da martedì a lunedì, Daniele vivrà in una stanza con cinque uomini ai margini come lui. Sono Madonnina e i suoi occhi senza pace; Alessandro spinto a fondo del nulla; Giorgio con la foto in bianco e nero della madre; Gianluca che, nella sua gioia feroce e sfarfallante, pronuncerà la frase più significativa dell’intero romanzo; e Mario, il saggio, quello che forse ha più sofferto ma è stato comunque capace di resistere al male senza incattivirsi.

Quello che accomuna gli ospiti di quella stanza del reparto di psichiatria è l’incapacità di non farsi bruciare vivi dal dolore del mondo. Servirebbe una corazza, «un’armatura del miglior ferro», per mantenere almeno un po’ di distanza, per non precipitare (superando ogni limite) nella disperazione del prossimo. «Vorrei non sentire (…) la vita degli altri saldata alla mia con un patto di sangue. Perché il dolore costa fatica, ho vent’anni ma ho sofferto per mille, rimanendo sempre uguale a me stesso».

Sentire troppo non è solo amplificare il dolore, è anche ingigantire la gioia, è la consapevolezza che alcuni vivono solo sentendo tutto amplificato, tutto «gigantesco». E vissuta così, è chiaro che la vita pesi «più che agli altri». Quello che Daniele può augurarsi allora è soltanto di imparare ad accettarla, a far diventare tutto normale.

Nel caldo asfissiante di quell’estate e di tutte le estati, di quel tempo e di ogni tempo, la stanza del reparto di psichiatria si trova a essere interrogata da medici indifferenti, distratti e stanchi, maneggiata da infermieri spaventati e feriti. Tutto nell’assoluta mancanza di comprensione per ciò che il disagio mentale davvero è. Perché nel posto in cui si dovrebbe e potrebbe essere accolti e accompagnati, in realtà «te aiutano a casca’ più che a rialzatte». Triste nel contingente, questa è la situazione che rivela le priorità di una comunità intera.

Perché poi, a guardar bene, se nel tempo qualcosa è cambiato, non è affatto cambiato in meglio. Perché se il concetto di disturbo mentale nel tempo più recente si è andato diffondendo, non è certo per una maggiore attenzione verso il disagio, ma perché oggi va sempre più crescendo la tentazione di bollare come disturbo «quello che fino a ieri era semplicemente una caratteristica della persona, se non addirittura una virtù». Ovviamente la malattia mentale esiste e, proprio in quanto tale, va affrontata. Ma è anche vero che oggi «a un ragazzo che s’interroga sulla vita, sulla morte, su Dio, si risponde con la medicina, si parla immediatamente di depressione (...). Oggi è l’enormità della vita a dare fastidio (…). Perché un uomo che s’interroga sulla vita non è più un uomo produttivo, magari inizia a sospettare che l’ultimo paio di scarpe alla moda che tanto desidera non gli toglierà quel malessere, quell’insoddisfazione che lo scava da dentro (…). Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba mai andare in crisi».

Non è dunque un libro contro il chiedere aiuto, Tutto chiede salvezza. È piuttosto un libro che rivendica dignità per chi ha un disagio. E che, ancor prima, richiede e pretende ascolto per «la scintilla che ha fatto saltare tutto».

Tra le presenze che circondano Daniele, c’è la madre. Pensata, ricordata, pregata, sentita al telefono, è una presenza che illumina il romanzo. La madre non è solo colei che ama, che anticipa i desideri e i bisogni, che consola, ma è anche colei che — proprio perché ama — rimprovera. Il figlio è rinchiuso tra i pazzi, tra gli scarti, e lei — ascoltando un racconto mai sentito prima — non può tacere o assolvere. Lei rimprovera; «esse uomini non significa scala’ le montagne, ma ave’ la consapevolezza che ogni gesto ha un valore, nel bene come nel male».

La settimana finisce, Daniele torna a starsene all’aria per conto suo. Ma esce consapevole di aver imparato da quei cinque uomini «trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare», che solo la fratellanza può salvare. «Dal corridoio mi fermo a guardarli. Eccoli, ognuno nel proprio angolo di stanza, indifesi di fronte alla propria condizione, di esposti alle intemperie, di uomini nudi abbracciati alla vita, schiacciati da un male ricevuto in dono. I miei fratelli».

Il dolore è tutto lì. Con «la paura d’impazzire [che] è peggio della pazzia» perché tutti sappiamo a cosa porti. È l’urlo di dolore di Arthur Flek nel film Joker, è la sua (terribile) denuncia dell’invisibilità coatta dietro cui le società cercano di tutelarsi («Se fossi stato io morire sul marciapiede voi mi avreste camminato sopra. Io vi passo accanto ogni giorno e non mi vedete»). Mercarelli si pone sulla splendida scia di quanti hanno cercato di squarciare il velo su questo non voler vedere. Perché — ed è una legge universale a prescindere da che marginalità o differenza si tratti — è solo conoscendo l’altro che si può saltare il fossato. Guadagnandone tutti.

Daniele Mencarelli lo fa a modo suo, con il suo sguardo e la sua storia. E lo fa suggerendoci una chiave. «È questa la normalità? La salute mentale? La vera pazzia è non cedere mai. Non inginocchiarsi mai». Tutto chiede salvezza. Per tutti, a tutti, da tutti.

di Giulia Galeotti