«Sette opere di misericordia» di Piera Ventre

Il pozzo delle paure

Caravaggio «Sette opere di Misericordia» (Pio Monte della MisericordiaNapoli, 1606-1607)
07 maggio 2020

«Non sapeva più da quante ore, ormai, era davanti all’apparecchio acceso. Le immagini che vi scorrevano si sovrapponevano a quelle della lunga giornata che era stata tutta scombinata. Piangeva, Luisa, mescolando le sue tragedie a quelle di quella creatura sotto terra e di quell’altra madre straziata».

È il giugno del 1981 e la casalinga Luisa, moglie del camposantiere guercio Cristoforo Imparato nonché madre della sedicenne Rita e del decenne Nicola, è incollata alla televisione nella casa che affaccia sul cimitero di Napoli. A Vermicino, frazione di Roma, un bambino, Alfredo Rampi, è caduto in un pozzo e, insieme a lui, in quella fossa profondissima, sono precipitati i drammi, le colpe, le insicurezze, i malinconici ricordi e le paure di tutti gli italiani.

Nel pozzo, che fa tornare alla memoria quello di cui scrive Natalia Ginzburg ne Il Discorso sulle donne, sono pure scivolati i sentimenti e le emozioni degli Imparato, che, ormai, non vivono; piuttosto sopravvivono nella città ferita dal recente terremoto, luogo simile a «un animale pieno di piaghe», a una madre e a una matrigna al contempo.

Pertanto, proprio intorno a questa famiglia sgangherata, infelice a suo modo come ogni famiglia infelice, e che, nonostante le ristrettezze economiche, ospita per un breve periodo anche la compagna di liceo di Rita, Rosaria, rimasta «inguaiata» e, quindi, incinta, ruota Sette opere di misericordia (Vicenza, Neri Pozza, 2020, pagine 416, euro 19), secondo romanzo della partenopea Piera Ventre.

Si tratta di una storia corale, viscerale: scritta con un linguaggio lirico, capace di amalgamare termini aulici con parole dialettali rappresentando appieno la Napoli delle mille contraddizioni, alterna, alle vicende drammatiche di Cristoforo, Luisa, Rita, Nicola, Rosaria e degli altri personaggi che vi interagiscono, uno spaccato di cronaca, la Storia di fine Novecento, con continui flashback.

In casa Imparato, un sepolcro nel sepolcro, non c’è traccia di Bim Bum Bam, di Fantastico, dei capelli cotonati, degli orecchini di paillettes, dei pantaloni a zampa d’elefante e del resto del glamour degli anni Ottanta: c’è, al contrario, «un’atmosfera da dopoguerra», vi trapelano soltanto le brutte notizie, come, appunto, quella su Alfredino, metafora, in definitiva, della perdita dell’innocenza, dell’infanzia tradita non a caso dalla Storia.

Cristoforo nasce in una famiglia numerosa senza padre e per far fronte alle innumerevoli esigenze di madre e fratelli è costretto a lavorare sin da piccolo, perdendo, oltre al primo lavoro in tipografia, un occhio per lo scoppio di una granata; Luisa, coi «lampi inquieti dentro agli occhi» e che a volte lavora a servizio da don Erminio, pure non ha avuto un’infanzia felice, sposa tardi «l’uomo che le aveva promesso la Luna per poi metterla di casa in un camposanto, tra le ossa»; e, infine, Rita e Nicola, alle prese coi loro di problemi. La prima, tra amori non corrisposti e ricerca della verità, si domanda se riuscirà ad andare via da Napoli per iscriversi all’università a Bologna; il secondo, con un occhio strabico, si trova a far fronte, con coraggio, al bullismo dei compagni, mentre «crescere gli pareva una fregatura bella e buona».

Questi personaggi quasi neorealistici, ampiamente caratterizzati, richiamano quelli de La Storia di Elsa Morante e, perché no, anche quelli di Furore di John Steinbeck. Su di loro, la brava Piera Ventre fa letteralmente luce, tanto da intitolare il suo romanzo con lo stesso nome dell’opera di Michelangelo Merisi da Caravaggio, conservata al Pio Monte della Misericordia di Napoli.

Come a dire che gli Imparato, oltre che nel pozzo, sono anche e soprattutto nel dipinto: l’autrice, al pari del pittore sulla tela, imprime la luce nei personaggi, la luce che è in grado di farli fuoriuscire dal buio in cui si trovano a vivere («Ora sei questo. Guarda dalla parte della luce e fottitene del buio. Dalla croce poi si scende e si risorge»).

Il dipinto Sette opere di misericordia è, tra le altre cose, molto simile al Martirio di San Matteo, sempre di Caravaggio, custodita, invece, nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. In quest’ultimo caso, come ha scritto Alessandro Leogrande nell’ultimo capitolo de La frontiera, «nella scena di cruda, assoluta, improvvisa violenza si affollano le nostre debolezze di fronte al mistero del male. Tra le pieghe dell’opera si cela l’enigma del non agire».

Al contrario, nel primo caso, in Sette opere di misericordia (dove misericordia «deriva dal latino: misericors, dall’incontro di misereor, ho pietà, e cor-cordis, cuore»), c’è «una compassione che viene dal profondo, ma che non si limita a un sentire. Ci fa agire». Col solo atto della scrittura, e della lettura poi, la famiglia Imparato incontra, dunque, la misericordia, la luce e, ancora, nonostante le sofferenze patite, la speranza di risorgere.

di Enrica Riera