Il 28 maggio di trent’anni fa moriva Giorgio Manganelli

Il libro e la muraglia cinese

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26 maggio 2020

Sentenziava Luigi Pirandello che «la vita o la si scrive o la si vive». Si sarebbe tentati di collocare Giorgio Manganelli nella prima categoria: scrittore, critico letterario, traduttore, giornalista. Insomma, una versatilità di competenze e di interessi cui, ben si comprende, è sotteso un magma torrenziale di inchiostro. Ma si farebbe torto alla sua figura di intellettuale impegnato se, al contempo, non gli si riconoscesse il merito di essere evaso dal chiuso della pagina scritta per favorire un dialogo dinamico e costruttivo con l’esterno. Con tutto il dovuto rispetto per Pirandello, dunque, Giorgio Manganelli (di cui il 28 maggio ricorrono i trent’anni dalla scomparsa) la vita l’ha scritta e l’ha anche vissuta: vissuta sempre, ovviamente, attraverso il filtro illuminante di una cultura eccelsa, messa al servizio di un pensiero aperto e stimolante, nonché allergico ad ogni accademismo di maniera.

Manganelli — a testimonianza di un’esistenza condotta al lume di un sapere assetato di sempre nuove conquiste e di sempre nuovi orizzonti — è stato uno dei massimi teorici della neoavanguardia, un movimento letterario che si caratterizzò per la vibrante tensione nella sperimentazione formale, e che investì in pari grado sia la prosa che la poesia. Seguendo la scia dei modernisti inglesi come Eliot e Pound, i poeti aderenti al movimento contrapposero il linguaggio quotidiano a quello razionale e freddo del neocapitalismo, arrivando a un uso dello stile che fu definito «linguaggio parodistico». E la parodia — da non intendere come sfacciata irriverenza — può essere assunta a cifra stilistica di Manganelli, il quale riesce nella magia di essere chiaro e diretto anche quando utilizza provocatoriamente il linguaggio piegandolo a volute e a contorcimenti che, di primo acchito, sembrano disorientare e sgomentare il lettore.

«Scrivere — diceva — significa mettere in movimento forze oscure, che sono in rapporto col mondo dei lemuri e dei mostri, con gli gnomi. È un lavoro nelle caverne, scrivere, è una penombra mentale. Non si sa cosa ne vien fuori».

Certo è che dopo un primo assaggio della prosa di Manganelli, che può lasciare un po’ basiti, si coglie la profondità di un’analisi sempre lucida, capace di ghermire l’essenza dell’oggetto posto sotto la lente d’ingrandimento, strumento principale del suo laboratorio letterario. «Lettore indefesso e topo di biblioteca»: così lo definisce la figlia Lietta nel bellissimo libro Non sparate sul recensore (Milano, Nino Aragno Editore, 2018). Sin da giovanissimo, scrive Lietta, cominciò a leggere «mattamente», a frequentate biblioteche, «cosa che non smise mai di fare in tutta la sua vita, anche quando fu in grado finalmente di comprarsi tutti i libri che voleva e i suoi diciottomila volumi che lo sogguardavano dalle sue numerose librerie». Ma non si limitava a leggere: studiava, segnava, commentava, criticava. Nacquero così le micro-recensioni, i mini-commenti, i quaderni critici. Per lui scrivere era come respirare: non poteva farne a meno. E pur di scrivere, pubblicò un racconto, nel 1942, anche su «Il Piccone», giornale di orientamento fascista, e Manganelli, futuro partigiano, come sottolinea la figlia, «fascista certamente non era». Inizialmente il suo interesse per le riviste letterarie aveva una valenza puramente economica. «Il Manganelli del primo dopoguerra — evidenzia Lietta — era poverissimo, dovette vendere i mobili di casa per sopravvivere». Una volta egli annotò: «Alla mia finestra, dove si è rotto un vetro, ho messo un cartone. Ci si vede meno, ma almeno non entra il freddo». Poi gradualmente ebbe l’amore per la letteratura e — dichiara la figlia — «per quel feticcio che sempre l’avrebbe accompagnato e difeso contro le brutture della vita: il libro, la sua “muraglia cinese”».

Nel recensire, non aveva certo timore di andare contro corrente. A proposito di Dottor Jekyll e Mister Hyde, opera giudicata «intoccabile» dalla critica, Manganelli rilevava che in questo libro «il tentativo di ricercare un ritmo essenziale nell’avvicendarsi e intrecciarsi di elementi morali e psicologici non ha dato quella continuità di splendidi risultati conseguiti in altre opere, attraverso la consueta ricerca della magica possibilità degli oggetti di tradursi in ritmo verbale e rappresentativo».

Consulente editoriale delle più importanti case editrici italiane, da Mondadori a Einaudi, da Adelphi a Garzanti e a Feltrinelli, Manganelli torreggia nel registro narrativo della recensione. In questo contesto la penna si libra e la prosa diventa, senza gratuite smancerie, poesia. Significativo, in merito, è quanto scrive riguardo ad Assassinio nella Cattedrale di Thomas Stearns Eliot. «È veramente una cattedrale questo “dramma sacro”, che si punta e si aderge sui cori come su colonne ed archi: che ha pause di ombre e di luci nei brevi contrasti drammatici, in quei dialoghi svolti sub specie aeternitatis tra la santità e la malignità, provvista o sprovvista di ragione. È insieme la gotica verticalità delle guglie, e la massiccia saldezza dei muri a dare tanto moto e tanta gravità a questa tragedia».

Autore di opere — Hilarotragoedia (1964), Nuovo commento (1969), Sconclusione (1976), Amore (1981) — che oscillano tra il racconto-visione e il trattato, Manganelli elaborò una sorta di manifesto nella Letteratura come menzogna (1967), in cui afferma — tesi suggestiva e intrigante — che il compito della letteratura è quello di trasformare la realtà in menzogna, in scandalo e in mistificazione. Una realtà che viene risolta in un puro gioco di forme, attraverso le quali la scrittura si configura come contestazione. Può sembrare un atto irriverente verso il fruitore di tale letteratura nonché un oltraggio alla letteratura stessa. Ma così non è. Nel valutare, nel corso dell’opera, i testi di Dickens, Dumas, Nabokov, l’autore, a suo modo e per vie traverse, celebra l’alto valore della letteratura e della sua missione. La letteratura, pur in una veste cinica, è una medicina che cura il dolore dell’uomo, cospargendo balsamo sulle sue piaghe, ed è un tarlo che fruga incessantemente nei suoi affanni per poi lenirli, in conformità a quella dimensione catartica che è propria di ogni eccelsa forma d’arte.

di Gabriele Nicolò