DANTE E I PAPI — II
Il culto dell’Alighieri nella Siena della prima metà del Quattrocento

Il dantismo di Pio II

Venturino Venturi «Divina Commedia» (1984, particolare)
05 maggio 2020

Il cenacolo di intellettuali, legati tra loro dall’amore per Dante e per gli studi umanistici, nonché animati da fede profonda, così come aveva preso vita a Ravenna, negli ultimi anni della vita di Dante, sembra riproporsi nella Siena della prima metà del Quattrocento, anni dell’umanesimo e del pontificato di Enea Silvio Piccolomini — Pio II.

Era stato assai precoce, in Siena, il culto di Dante e assai diffusa la conoscenza della Commedia. Nasce, tra il Tre e il Quattrocento, una tradizione di studi danteschi come testimoniano i numerosi e importanti codici danteschi senesi, presenti nella Biblioteca Apostolica Vaticana. A Siena l’umanesimo cristiano di Dante raccoglie numerose “voci” che circondano la “voce solista” di Enea Silvio: da Neri de’ Pagliaresi, segretario e confidente di santa Caterina a Cecco di Meo Mellone degli Ugurgieri che intorno al 1350 compendiò in 100 terzine la Commedia, al pittore Ambrogio Lorenzetti che, secondo fonti antiche, dipinse Dante tra i 24 magistrati del Buon governo in Città nel palazzo pubblico di Siena, a Simone Serdini, detto il Saviozzo, che fu scriba della Commedia e allestì una silloge simile a quella del Boccaccio, a Giovanni di ser Buccio da Spoleto che nel 1396 ebbe l’incarico di insegnare nello Studium e di leggere pubblicamente la Commedia. Tra i suoi allievi san Bernardino e Enea Silvio Piccolomini che, intorno al 1423, si dedicò allo studio della grammatica, della retorica e della poesia.

Nel dantismo senese un ruolo particolare ebbero il monastero benedettino di Monte Oliveto e il convento agostiniano di Lecceto. Monte Oliveto, fondato nel 1319 dal beato Benedetto Tolomei, in breve divenne un notevole centro di cultura (nella sua biblioteca si conservano un codice che riporta la Commedia, col commento di Graziolo Bambaglioli, in latino, del 1324 circa, e un codice, del secolo XV, contenente un frammento dell’Epistola di Dante all’imperatore Arrigo VII). Il monaco olivetano Matteo Ronto portò a termine una traduzione in esametri latini della Commedia. Il convento agostiniano di Lecceto fu sede di Beati, tra i quali Filippo Agazzari, che, nella seconda metà del Trecento, copiò un’immensa mole di manoscritti anche danteschi. Ivi risulta iscritto, nell’aprile 1540, il teologo Giovanni Benedetto Moncetti, rettore degli Agostiniani di Padova, scopritore dell’opera dantesca Quaestio de aqua et terra, pubblicata nel 1508 (editio princeps). La politica culturale della famiglia Piccolomini si svolge in questo contesto.

Ambrogio di Nino Piccolomini fu uno dei tre fondatori dell’Abbazia di Monte Oliveto (1313) e le fortune della famiglia ebbero il maggior lustro quando Enea Silvio fu creato pontefice e la raccolse in una consorteria. Ebbe allora, 1458, dall’imperatore Federico III la dignità di conte palatino. Il dantismo di Enea Silvio si rivela in queste parole: «Nella precedente età furono molti gli uomini illustri fra i Fiorentini, dei quali ancor oggi resta il nome; tuttavia sembra che tutti li abbia superati Dante Aldigherio, del quale l’insigne poema e quella nobile indagine sul Paradiso, l’Inferno e il Purgatorio odora di dottrina quasi celeste, anche se talvolta, come uomo, egli sbagliò. In seguito gli successe Francesco Petrarca, al quale difficilmente lo troveremmo uguale, se le opere latine di quello potessero essere comparate a questa che egli scrisse in lingua toscana» (Commentarii rerum memorabiliumquae temporibus suis contigerunt, ii Libro).

Il giovane Enea Silvio, educato secondo un raffinato cursus letterario, aveva conosciuto molto presto Dante, dal suo precettore, il domenicano Antonio de Rosellis, che aveva sostituito a Firenze Francesco Filelfo, nel 1432, nell’incarico di Lettore della Commedia. A Firenze Enea Silvio trascorse il periodo dal 1429 al 1431, frequentando assiduamente le lezioni del Filelfo; conobbe Leonardo Bruni, Flavio Biondo, alunni di Coluccio Salutati, e Poggio Bracciolini, che divennero suoi sodali. Con Leonardo Bruni era iniziata l’interpretazione umanistica di Dante, o meglio, proseguiva nel Quattrocento l’umanesimo cristiano di Coluccio Salutati. Anche Flavio Biondo aveva approfondito il suo dantismo negli anni trascorsi presso la curia romana a Firenze, sotto papa Eugenio iv. Pertanto la formazione umanistica di Enea Silvio si intrecciò con il cursus honorum ecclesiastico. L’inizio della carriera diplomatica lo portò all’incarico di Abbreviatore, durante il Concilio di Basilea, al servizio di Kaspar Schlick, cancelliere imperiale alla corte di Federico III. Ciò permise proficui contatti con l’umanesimo europeo, già impregnato dell’opera di Dante.

A Costanza, durante il concilio degli anni 1414-1418, il vescovo Giovanni Bertoldi da Serravalle aveva fatto una traduzione latina della Commedia (1416) e un commento alle tre cantiche (1417). In quell’atmosfera di riforma della Chiesa in capite et membris, la Commedia acquistava una sua autorità: in tutto il commento del Serravalle continuo è il richiamo agli appelli di Dante per una rinnovata spiritualità della Chiesa. Se il cardinale Bertrando del Poggetto, legato papale negli anni 1320-27, aveva ordinato il rogo del Monarchia, Giovanni da Serravalle dichiara di aver composto il commento proprio in quanto vescovo, perseguendo gli stessi fini morali di Dante.

A Basilea, sede del Concilio, nel 1436, furono chiamati, quali maestri di umanesimo cristiano, i dantisti Francesco Filelfo e Antonio da Rho. È proprio l’afflato riformatore di Dante che rivive nell’umanesimo cristiano di Pio II e della sua corte, a esso si affianca la passione filologica dei dantisti che lo circondano e che interviene direttamente nei suoi scritti. Particolarmente in tre parti della sua opera Pio II sembra evocare Dante. Nel De curialium miseriis, composto nel 1444, quando Enea Silvio aveva conosciuto le miserie delle corti imperiale e pontificia. La fonte di quest’opera è un luogo del Convivio in cui Dante contrappone la cortesia delle antiche corti d’Italia alla “turpezza” delle moderne, considerazione presente anche in Inferno, XIII, 64-69.

Più specifico il richiamo dantesco nel De ortu et auctoritate Romani imperii, scritto nel 1446, quando Enea Silvio, dopo essersi allontanato dalle tesi conciliari, a favore di una restaurazione dell’attività imperiale, era consigliere di Federico III. Qui la fonte del Piccolomini è il IV trattato del Convivio, mentre sul ruolo dell’impero, sull’origine provvidenziale della monarchia e dell’impero romano e sul significato universale dell’impero, la fonte diretta è il trattato Monarchia. Infine nel Dialogus pro donatione Constantini, dedicato al cardinale Giovanni di Carvajal, composto tra il 1454 e il 1456, il richiamo a Dante è aperto ed esplicito.

Evocando la Commedia, l’opera comincia con la narrazione di un sogno, fatto da Enea Silvio. Dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi (1453) san Bernardino guida il futuro papa attraverso i tre regni d’oltretomba affinché conosca il progetto dell’imperatore Costantino, ispirato da Dio: portare sulla terra le anime illustri per dare ai cristiani la volontà di lottare contro i Turchi. Tutta dantesca appare qui l’ampia visione della storia d’Europa lacerata da contrasti e conflitti. Il dantismo di Pio II è giustificato dunque da tre ragioni: la prima, morale e civica, contrappone il Papa e il Poeta alla corruzione delle corti; la seconda, politica, li spinge a sostenere l’autorità imperiale contro i faziosi; la terza destina il ruolo del Papa al fine pastorale. L’affinità intellettuale e morale si intensifica quando Enea Silvio diventa Pio II, come è dimostrato dai Commentarii.

Soprattutto nel secondo libro, in cui figura il giudizio su Dante, citato precedentemente, si possono trovare altre testimonianze del dantismo di Pio. Ad esempio, quando tratteggia la storia di Firenze, come nei canti sesti di Inferno e Purgatorio, e condanna le discordie civili fiorentine. Dante rimaneva così presente nella mente dell’umanista e del pontefice Pio II, che, nel ripercorrere le tappe del proprio cammino, si rivolgeva ancora ai temi e agli accenti di uno dei suoi primi modelli, facendone rivivere il messaggio di riforma della Chiesa. Pio II costituisce la prima tappa di un lungo cammino in cui l’umanesimo cristiano diventa opera concreta di santità, sotto il segno di Dante.

di Gabriella M. Di Paola Dollorenzo