Le Guardie svizzere ricordano le vittime del Sacco di Roma

Fedeli al Papa con spirito di sacrificio

Mons Luigi Roberto Cona, Assessore della Segreteria di Stato -  Santa Maria della Pietà in Campo ...
07 maggio 2020

In forma riservata e ristretta, rispettando le norme di igiene e di sicurezza che vigono nello Stato della Città del Vaticano a causa del covid-19, si è svolta mercoledì 6 maggio l’annuale deposizione della corona di fiori in ricordo delle 147 guardie svizzere cadute durante il Sacco di Roma del 1527.

La cerimonia commemorativa sul piazzale di Protomartiri romani si è conclusa con il conferimento delle onorificenze da parte dell’assessore della Segreteria di Stato, monsignor Luigi Roberto Cona, alla presenza del comandante della Guardia svizzera pontificia Christoph Graf e del cappellano del Corpo, don Thomas Widmer. Trasmessa da Vatican media, è disponibile anche sul sito web www.gaurdiasvizzera.ch. Rimandato invece al prossimo 4 ottobre il tradizionale giuramento delle nuove reclute.

Il colonnello Graf in un discorso nelle diverse lingue della Confederazione ha rievocato la tragica giornata dell’attacco dell’esercito ispanotedesco dell’imperatore Carlo v. E sebbene le autorità di Zurigo, già da febbraio avevano fatto pervenire un messaggio al comandante della Guardia svizzera pontificia con l’ordine di rientrare in patria entro quattro mesi, lui e i suoi uomini scelsero di rimanere al loro posto. All’alba del 6 maggio ci fu il previsto attacco alla città eterna, e gli spietati soldati dell’imperatore assaltarono le mura cittadine presso le porte Santo Spirito, Cavalleggeri e Fornaci, trovandosi davanti il piccolo esercito pontificio che combatè con coraggio. «Cercarono con tutte le forze di fermare l’avanzata del nemico, pur sapendo di non avere alcuna possibilità di successo contro 22 mila avversari». Furono «brutalmente assassinate 147 guardie, mentre 42 riuscirono a portare in Santo Padre in sicurezza a Castel Sant’Angelo attraverso il Passetto» ha concluso Graf, accostando a quella storica esperienza il servizio di «medici e infermieri che soprattutto nel nord dell’Italia» in questi giorni di pandemia «si dedicano con abnegazione ai malati rischiando e dando la vita».

In precedenza monsignor Cona aveva presieduto la messa, concelebrata dal cappellano della Guardia svizzera, nella chiesa di Santa Maria in Campo Santo teutonico. Dopo il saluto rivoltogli da don Widmer, il quale ha messo in evidenza «la situazione difficile» che in questo tempo condiziona anche il servizio della Guardia — chiamata a «vivere con fedeltà e grande dedizione il servizio ordinario e le piccole cose di ogni giorno» — all’omelia l’assessore ha offerto ai presenti una riflessione sulla dimensione del «sacrificio», che appartiene non solo alla storia ma anche alla missione e allo spirito attuale del Corpo. Richiamando quello delle Guardie che nel 1527 consentì al Pontefice Clemente VII di mettersi in salvo a Castel Sant’Angelo, il prelato ha ricordato il martirio di Pietro e dei primi cristiani, avvenuto proprio nello stesso luogo. Un gesto divenuto «seme di una nuova vita, così come è stato per il sacrificio di quelle Guardie che con tanta generosità e abnegazione offrirono se stesse per la salvezza del Papa».

«Per noi cristiani, dunque, il sacrificio non può essere assolutamente letto in senso negativo» ha sottolineato il celebrante, rivolgendo, a mo’ di esempio, un pensiero grato ai suoi genitori. Le cui rinunce, ha riconosciuto, gli hanno consentito di frequentare il seminario, di dedicarsi con serenità alla formazione e di diventare infine sacerdote. «Da ciò — ha detto — possiamo vedere come il sacrificio non possa essere considerato come una mera privazione: dietro questo gesto di rinuncia dev’esserci qualcos’altro, una motivazione più grande» che va oltre il contingente e il provvisorio. «Forse che il sorriso di vostro figlio o di vostra figlia — ha ribadito rivolgendosi alle Guardie presenti — non è il dono più grande che possiate ricevere? L’abbraccio prima di andare a letto, il bacio della buona notte, non valgono più di tutte le rinunce che avete dovuto affrontare in tutti questi anni?».

«Rinunciare a se stessi per un ideale — ha rilanciato monsignor Cona — è ancora più importante che guardare all’interesse personale e difendere ciò che è proprio». Come dimostra in modo eclatante il sacrificio di quelle Guardie che quasi cinquecento anni fa «ritennero più importante che il Papa trovasse salvezza anziché preservare la propria vita». Dietro quel gesto, infatti, «c’era un ideale». E a maggior ragione, ha evidenziato, «noi cristiani siamo chiamati a rinunciare a noi stessi, non per un semplice ideale» ma «per imitazione». Perché «prima di noi, prima delle Guardie che nel 1527 donarono se stesse, prima di Pietro e dei primi cristiani che irrorarono le pietre del Circo di Nerone con il loro sangue, vi fu Qualcuno che rinunciò a se stesso per amore». Non un personaggio «mitologico» o «fiabesco», ma un Dio che si è incarnato realmente nella storia: Gesù di Nazaret. «È lui — ha affermato monsignor Cona — il modello che dobbiamo seguire e che dobbiamo imitare, perché seguire vuol dire soprattutto imitare».

Da qui l’invito rivolto a ufficiali, sottoufficiali e alabardieri: «Rinunciamo a noi stessi perché amiamo Cristo e perché vogliamo imitarlo nel servizio». In questo modo, «dietro il sacrificio con c’è una rinuncia ma un’offerta». E «voi — ha detto ai presenti — siete qui perché in questo luogo potete incontrare quel Cristo che tanto amiamo». Del Signore, infatti, non si fa esperienza solo «nelle estasi mistiche» ma «negli eventi, nella quotidianità della nostra esistenza». La realtà, del resto, «non è così semplice come appare, è più complessa. Chi vede Cristo vede il Padre; e quindi chi vede ciascuno di noi, deve vedere il Cristo.

«Io mi auguro — ha concluso il prelato — che negli anni che il Signore vi darà di trascorrere in questo luogo possiate veramente fare esperienza di Cristo, possiate incontrare una Chiesa che non è soltanto un’istituzione da difendere e da proteggere, come voi fate sapientemente ormai da cinquecento anni, ma è anche comunità credente che ha incontrato il Cristo vivo e vero, che lo ama e intende servirlo attraverso la quotidianità».