29 maggio: memoria liturgica di san Paolo VI nel centenario della sua ordinazione presbiterale

Essere prete per diventare santo

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28 maggio 2020

L’arazzo di Paolo VI, esposto il 14 ottobre 2018 sulla facciata della basilica di San Pietro nel corso della solenne cerimonia di canonizzazione, mostra Papa Montini con indosso la stola, ossia il segno del sacerdozio. Questa scelta, suggerita dal postulatore della causa, il redentorista Antonio Marrazzo, appare particolarmente appropriata ricordando la personale vocazione sacerdotale di Montini e la sua dedizione per tutti i sacerdoti, compresi quelli in crisi, nel corso della sua straordinaria esperienza pastorale di vescovo e Pontefice.

Giovanni Battista Montini viene ordinato sacerdote il 29 maggio 1920 dal vescovo di Brescia monsignor Giacinto Gaggia, nella cattedrale della città. La sua scelta di divenire prete si inserisce fin dall’inizio in un percorso di aspirazione alla santità, intesa come risposta fedele ed esigente al dono di Dio e come «sintesi» — termine che usa spesso — tra azione e contemplazione, ordine esteriore e interiore. Il 26 maggio 1920, tre giorni prima di essere ordinato, scrive ai familiari: «Sto bene e non ho d’altro bisogno di sapere che pregate e fate pregare per me [...]. Scusatemi di tutto ciò che non avreste voluto avere da me, e soprattutto quello che in me vedeste di meno degno a prepararmi alla santità della mia nuova vita e pensate di più, per questo, alla bontà di Dio».

Quella di Montini - Paolo VI può senz’altro essere considerata una vita “a sorpresa”, caratterizzata — come il giovane don Battista scrive nel 1922 al suo direttore spirituale, l’oratoriano Paolo Caresana — da tanti «capitomboli» inaspettati: Montini deve via via accettarli come voleri della Provvidenza e impegnarsi a viverli in una prospettiva di perfezione spirituale.

Il primo «capitombolo» è l’imposizione da parte dei superiori, alla fine del 1921, di abbandonare la facoltà di Lettere e filosofia della Sapienza, a Roma, alla quale egli ha voluto iscriversi contemporaneamente al corso di studi alla Gregoriana: sperava di divenire in futuro un prete impegnato nella carità pastorale, spirituale e intellettuale. Scrive in questa occasione a padre Caresana pregandolo di raccogliere «il singhiozzo della mia vita spezzata». Montini deve quindi entrare alla Pontificia accademia ecclesiastica, prepararsi per il servizio nella diplomazia della Santa Sede e affrontare il «freddo diritto canonico», come lo chiama monsignor Gaggia, che desiderava per lui un rientro in diocesi. Dopo tre anni, il 24 ottobre 1924, Montini entra nell’ufficio della Segreteria di Stato in Vaticano: il 4 dicembre viene nominato addetto, il 9 aprile 1925 minutante, quindi il 13 dicembre 1937 diviene sostituto e il 29 novembre 1952 pro-segretario di Stato per gli Affari ordinari.

L’aspirazione a un ministero vicino agli uomini del suo tempo resterà una costante nella sua riflessione spirituale. Da Papa, scriverà in alcuni appunti che avrebbe desiderato una vita sacerdotale come «un vice-parroco, o un parroco umile, saggio e zelante». L’amico Jean Guitton, dopo un colloquio con lui su «cos’è un prete», commenterà: «Indovinavo che una delle pene della sua vita era stata la rinuncia: essere stato limitato per un concatenarsi di circostanze, per la docilità ai segni, a funzioni amministrative molto lontane dal sacerdozio, mentre era nato per parlare all’uomo».

Con il passare degli anni, nel suo posto in Vaticano tra «cose e progetti, visite e telefonate» che fanno «ressa da tutte le parti», Montini teme di svilire il dono del sacerdozio; scrive ai familiari: «Il servizio all’altare è così ridotto da sentirne nostalgia e bisogno».

Nel 1933 interviene un altro «capitombolo», ossia le forzate dimissioni dall’assistenza ai giovani della Fuci: monsignor Montini, tanto amato dagli universitari, subisce le accuse di «liturgismo» e «metodi da sale protestanti», che lui definisce con i genitori «gravi e ridicole», e vive una vera Via crucis. Si chiude tristemente quel decennio fucino, tra il 1924 e il 1933, che Paolo VI descriverà come «anni tormentati, difficili; ma anni preziosi, anni magnifici».

L’inaspettata e gravosa nomina ad arcivescovo di Milano, nel novembre 1954 — che dopo trent’anni gli fa lasciare la Segreteria di Stato — viene vissuta con sgomento ma sempre in una prospettiva di chiamata vocazionale: una tappa del suo sacerdozio, che è «la scala che la Provvidenza di Dio ha fissato per salire al cielo», come dice il giorno della sua consacrazione a vescovo, il 12 dicembre 1954, durante il Te Deum in San Carlo al Corso. Nell’estate del 1955 il neoarcivescovo Montini risponde così a una lettera di Thomas Merton: «La perfezione non consiste nelle circostanze che la favoriscono, ma piuttosto nella carità dell’anima che la cerca; circostanze provvidenziali cambiano il programma pratico della nostra vita; e bisogna alla fine amare e servire quella forma di vita che le vicende provvidenziali del nostro pellegrinaggio ci impongono».

Nella grande arcidiocesi ambrosiana, che conta circa 3.700 sacerdoti e religiosi, la prima raccomandazione dell’arcivescovo Montini al clero, chiamato a mettersi in stato di missione e di apostolato, è di essere santi: «La santità deve accompagnare questo nostro travaglio per salvare i lontani». L’arcivescovo chiede ai suoi preti: «dove sono gli eroi, dove i Santi?». E raccomanda una santità semplice, che si esprime nel ministero quotidiano: «Cominciamo a dire bene la Messa, ed il resto verrà». Le testimonianze dei segretari e dei medici curanti di Paolo VI sono concordi nel dire che il Papa, da una certa età in poi, nascondeva i suoi mali perché non voleva gli fosse impedito di celebrare; e celebrava con una concentrazione assoluta. Nel duomo di Milano, nel 1957, l’arcivescovo esorta i sacerdoti a non essere «come dei pastori stanchi che nulla vedono, come dei consuetudinari pigri che s’accontentano di ripetere: “Si è sempre fatto così. Avanti sempre così!”». Sollecita i suoi preti ad abbandonare atteggiamenti di comodo: «La preferenza alla propria libertà, il calcolo del minimo sforzo, l’arte d’evitare le noie, il sogno d’una solitudine dolce e tranquilla, la scusa della propria timidezza, l’incapacità sorretta dalla pigrizia, la difesa del dovuto e non più, gli orari protettivi della propria e non dell’altrui comodità, e così via». E così li incoraggia: «Il Sacerdozio o è vissuto ad alta temperatura, ed è una bellissima cosa che riempie di gioia coloro che lo vivono, o è vissuto in una temperatura calante e tiepida ed è una pesantissima cosa». Nel 1961, nel bilancio della situazione diocesana che l’arcivescovo di Milano presenta a Giovanni XXIII durante la visita ad limina, la priorità è ancora quella di «dare al sacerdozio incremento di santità e di numero».

Il 21 giugno 1963, il cardinale Montini vive l’ultimo decisivo «capitombolo» della sua vita, l’elezione pontificale, che egli definirà più avanti il «mistero enorme vissuto». E in un ritiro che compie poche settimane dopo la nomina, di nuovo si impegna sulla via della santità, e cioè «alla dedizione totale, allo sforzo continuo, all’amore esclusivo, alla devozione intensa». Sintetizza con parole lapidarie e incisive il suo programma spirituale: «Religione assoluta. Fiducia completa. Idea unica. Perfezione cercata e vissuta al massimo grado». Il Papa sembra prevedere quanto gli costerà tale fedeltà: «Devo osare di chiedere al Signore che della Croce mi dia la conoscenza, il desiderio, l’esperienza, la forza, il gaudio».

Infatti la storia non sarà pietosa e Paolo VI, dopo alcuni anni di “successo” presso il popolo di Dio — grazie alla conduzione del concilio, ai viaggi apostolici, al principio del dialogo col mondo... — subisce tutti i contraccolpi della crisi ecclesiale e sociale. A questo proposito, monsignor Carlo Bresciani nel 2014 scrive: «Papa Francesco, in una conversazione con un piccolo gruppo di vescovi, con una battuta ha detto che gli restava solo un dubbio per la cerimonia della beatificazione di Paolo VI: se indossare i paramenti rossi o bianchi, alludendo ovviamente al fatto che lo ritiene quasi un martire per quanto ha sofferto per amore alla Chiesa durante il suo pontificato».

I sacerdoti sono al centro dei progetti e delle meditazioni di Paolo VI, che vuole risvegliarne l’aspirazione alla santità come principio della loro missione nel mondo, perché infondano nella gente il desiderio dell’attesa di Dio. I preti devono essere i promotori di una santità attuale, umile, diffusa ed evangelizzante. Quindi il concilio deve portarli innanzitutto a una riforma interiore. Quando, nel pieno della contestazione, il 30 giugno 1968, Paolo VI invia un messaggio — che lui definisce «una semplice effusione di cuore» — a chiusura dell’Anno della fede a tutti i sacerdoti cattolici, ribadisce: «Come arde in noi la lampada della contemplazione?».

Il Papa approfondisce l’identità dei presbiteri e dei vescovi nella Chiesa e nella società e chiede un sincero rinnovo della loro fedeltà. Nel 1967 viene pubblicata l’enciclica Sacerdotalis caelibatus, ma si possono ricordare anche le lettere dell’arcivescovo Montini per il Giovedì santo ai sacerdoti ambrosiani; il sacerdozio è il tema (insieme alla giustizia) del secondo Sinodo dei vescovi del 1971, e delle omelie di Pentecoste; e per due volte il Pontefice lo sceglie come argomento di riflessione e preghiera per gli esercizi spirituali quaresimali.

Negli anni più bui del post-Concilio, papa Montini arriva a un’identificazione completa con il suo ministero, che a ragione definisce una vera e propria «petrificatio». Ed è ancora un cammino di santità: «Nell’atmosfera di crisi tocca a Pietro mostrare se stesso fortis in fide, franco e sicuro, ardito nella prudenza, senza dubbi e senza timore, pieno di fede e di Spirito Santo, capace di sintesi e di azione, esposto al rischio e al sacrificio; e infondere nei fratelli la certezza profetica, l’energia, il coraggio, la letizia, la fede e la speranza e la carità in Cristo Signore».

È ormai noto che la croce più pesante di Paolo VI sono state le dispense sacerdotali. Ma dobbiamo anche ricordare che sono frequenti le sue parole sulla gioia della vocazione sacerdotale, del mandato apostolico, della liturgia e della preghiera. E già il 1° dicembre 1960, il cardinale Montini raccomandava ai sacerdoti di Varese: «Godere di Dio! Quale parola! Facciamo il nostro dovere, portiamo la nostra croce, facciamo le nostre cose... Il Signore ne terrà conto, ed è cosa grandissima: nessuno ne dubita. Ma fermiamoci un momento a godere! Bisogna, ripeto, che reimpariamo a godere le nostre cose».

D’altronde, il giovane seminarista Montini, in una lettera a un amico, otto giorni prima di ricevere il diaconato, scriveva: «Provo le vibrazioni del Magnificat». Guitton, nel colloquio sopra citato, aggiunge: «Sentendo parlare il Santo Padre del sacerdozio con una commozione così intensa, io mi dicevo che questo doveva essere il suo segreto, la sua stessa sostanza». Tutte le altre cose che il Papa faceva non erano che un’«espansione» di questa sua vocazione, del suo essere prete.

Paolo VI — il primo Papa che ha scritto un’esortazione sulla gioia cristiana, Gaudete in Domino, nel mezzo dell’Anno santo 1975 — farà sempre affidamento su questa intima gioia pasquale, che deve animare innanzitutto la vita dei ministri di Dio, per diffondersi tra gli uomini. Come dice a Guitton, questo sarà «un sacerdozio vero, buono, umano e santo, capace di salvare il mondo».

di Giselda Adornato