Uno studio dell’Università di Oxford

Dopo la pandemia investire nelle politiche verdi farà ripartire prima le economie

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05 maggio 2020

Investire in politiche “green”, che riducano le emissioni di gas a effetto serra investendo in infrastrutture per energie pulite, è estremamente remunerativo. Questo tipo di interventi infatti, crea più posti di lavoro, offre maggiori rendimenti nel breve termine per ogni dollaro speso e porta a un maggiore risparmio sui costi sul lungo termine, rispetto agli stimoli fiscali tradizionali. A confermare quello che sino ad ora era un argomento ad uso dei soli ecologisti è un nuovo studio dell’Università di Oxford, uno dei primi a valutare criticamente i benefici della lotta contro i cambiamenti climatici insieme alla ripresa economica post-coronavirus.

Coautori dello studio sono il premio Nobel del 2001 per l’economia Joseph Stiglitz e Lord Nicholas Stern, della London School of Econicmics, autore nel 2006 del rapporto sui cambiamenti climatici, noto appunto come «Rapporto Stern». L’autore principale è invece Cameron Hepburn della Smith School of Enterprise and the Environment dell’Università di Oxford.

Gli autori hanno intervistato 231 esperti di banche centrali, ministri delle finanze, accademici e think tank di tutto il mondo (di cui ventotto partecipanti al sondaggio sull’Italia) e catalogato 700 diversi interventi politici di stimolo all’economia, del passato (in particolare quelli che hanno fatto seguito alla crisi del 2008) e attuali.

Sulla base degli elementi raccolti, gli economisti hanno rilevato che le misure a lungo termine e a favore del clima hanno reso di più rispetto alle tradizionali manovre di stimolo economico e finanziario non solo, come si può immaginare, sotto l’aspetto della tutela ambientale ma anche sotto l’aspetto più meramente produttivo e di ritorno economico.

«La riduzione delle emissioni inquinanti che si è avuta con l’esplosione dell’epidemia da covid-19 potrebbe essere di breve durata», afferma Cameron Hepburn. «Ma questo rapporto mostra che possiamo scegliere di ricostruire meglio, mantenendo molti dei recenti miglioramenti che abbiamo visto nell’aria più pulita, restituendo natura e riducendo le emissioni di gas serra». Per fare questo occorre che le misure di stimolo all’economia siano già orientate a programmare, non solo a fronteggiare l’emergenza.

Nello studio di Oxford si mette in evidenza come sino ad ora, sebbene molti paesi del g20 abbiano messo in campo misure economiche robuste per fare fronte alla crisi provocata dalla pandemia, nessun governo ha introdotto misure di recupero fiscale di rilievo per gli investimenti nel settore “green”. Una mancanza che potrebbe costare soldi, oltre che salute.

La Rete delle università Cop26, nata nel Regno Unito per fornire alle Nazioni Unite i dati sui cambiamenti climatici da analizzare a Glasgow, appunto fra sei anni, sulla base dei risultati di questa ricerca sta organizzando un’iniziativa per indicare ai responsabili nazionali come implementare misure che sappiano sfruttare positivamente le circostanze createsi con l’emergenza da coronavirus. Tra le politiche suggerite figurano quelle che favoriscono gli investimenti in energie rinnovabili, la riduzione delle emissioni industriali attraverso il recupero e lo stoccaggio del carbone (particolarmente nel Regno Unito), la diffusione della banda larga per internet, la produzione di veicoli elettrici. Misure particolarmente redditizie per i paesi in via di sviluppo sono anche quelle per il sostegno all’agricoltura sostenibile o per la riqualificazione dei lavoratori colpiti dalla crisi dei settori legati ai combustibili fossili.

Per quanto riguarda l’Italia, secondo gli economisti di Oxford, le risposte alla pandemia da covid-19 sono state finora neutrali dal punto di vista climatico (ovvero non ci sono stati profondi investimenti nei combustibili fossili, ma neanche verso le rinnovabili), tuttavia c’è una grande opportunità per future misure con impatto positivo dal punto di vista climatico.

Ne sono un esempio gli investimenti nella produzione di energia rinnovabile, come l’eolico o il solare. Come hanno dimostrato le ricerche precedenti, già nel breve termine, la costruzione di infrastrutture per l’energia pulita richiede infatti molta manodopera, creando il doppio dei posti di lavoro per dollaro rispetto agli investimenti nei combustibili fossili, oltre ad essere meno suscettibile alla delocalizzazione: ogni milione di dollari di spesa genera infatti 7,49 posti di lavoro a tempo pieno nelle infrastrutture per le energie rinnovabili e 7,72 nell’efficienza energetica, contro i 2,65 prodotti dagli investimenti nei combustibili fossili.

Insomma, quella che sino ad ora poteva sembrare una semplice intuizione, ora ha anche l’avallo di numeri inconfutabili. Ora, serve “solo” agire. (ma.be.)