«La moglie dello straniero» di Gwen Florio

Donne in gabbia

Gwen Florio
27 maggio 2020

L’americana Gwen Florio si conferma raffinata e abile narratrice con il suo sesto romanzo, La moglie dello straniero (Milano, Editrice Nord, 2020, pagine 370, euro 19, traduzione di Barbara Cinelli), ambientato tra Stati Uniti e Afghanistan all’epoca dell’attacco alle torri gemelle. Giornalista e corrispondente estera da zone ad altissimo tasso di rischio come Somalia, Iraq e Afghanistan, è nota in patria per una serie di romanzi gialli, dei quali a noi, in traduzione, è arrivato solo Le ragazze del Dakota. L’attenzione di una giornalista che è vissuta in quei luoghi, assieme alla sua maestria innegabile per la suspense, fanno de La moglie dello straniero un romanzo avvincente senza che sia né un thriller, né un documentario giornalistico, ma che, in qualche modo, è tutte queste cose insieme. La tecnica dell’autrice, infatti, ci cala gradualmente nelle vite di due donne apparentemente diversissime tra loro, chiuse nei propri mondi in parte scelti da loro stesse, in parte imposti, finché il destino non le fa incontrare. E di quei mondi impareremo, pagina dopo pagina, molte cose che credevamo erroneamente di conoscere.

Liv è la moglie di un ricercatore che, negli Stati Uniti, si occupa con non troppo successo della politica mediorientale. Farida è una ragazza pakistana che, dopo aver studiato a Londra, lavora nel proprio paese come interprete. La tragedia dell’11 settembre 2001, oltre ad aver cambiato il mondo vero, provoca improvvisi cambiamenti nel mondo immaginario del romanzo e nella vita delle due protagoniste. A Martin, il marito di Liv, verrà proposto di andare a lavorare a Kabul per una ong, mentre Farida, sposata per volere del padre al figlio di un contrabbandiere afgano, dovrà lasciare il più sicuro Pakistan per la nazione confinante, dove si troverà a lavorare nel quartier generale della stessa ong dei due americani.

Uno degli elementi che caratterizzano questo romanzo è un senso di relatività culturale che nessuno dei protagonisti percepisce davvero, ma che risalta subito agli occhi del lettore. Il padre di Farida, per esempio, deride gli afgani perché li ritiene arretrati, in quanto lapidano le donne e le obbligano a portare il burka, ma non si perita di cederla allo sconosciuto figlio di un potentissimo malvivente dietro lauto compenso monetario. Quella, d’altronde, è la loro cultura. Ma le tradizioni, si sa, possono essere delle trappole, e Farida, nella nuova famiglia del marito Gul e del suocero Nur lo scoprirà ben presto. In Pakistan per anni per questioni di affari, Gul e parenti si devono spostare in Afghanistan dopo l’attacco alle torri gemelle perché l’attenzione degli amriki, dell’esercito a stelle e strisce, mette in pericolo i loro contrabbandi. Parte un viaggio che porterà Farida a camminare per ore e per giorni attraverso il confine che divide i due stati e che comincerà a segnarla nel corpo (arriverà con piedi e caviglie devastate) e nell’anima. In una immagine che rischia di far rabbrividire il lettore, «le cala addosso una massa blu». Non decide lei di mettere il burka, ma le viene imposto e letteralmente calato sul corpo. Indosserà anche lei, quindi, questa gabbia di stoffa che è segno tangibile di una tradizione in cui le donne non hanno nessun diritto morale, fisico, economico o legale di alcun tipo. Una tradizione contro la quale devono lavorare Liv e gli altri americani nella ong di Kabul, per aiutare le donne afgane ad avere un futuro migliore.

Verrebbe da dire che La moglie dello straniero è un romanzo di donne, in cui l’amicizia che nasce tra Liv e Farida è un racconto davvero edificante di solidarietà e di resilienza, ma in realtà le figure maschili non sono affatto di contorno o di sfondo. La stessa Kabul, da ambiente di sfondo della storia, assurge quasi a personaggio con le sue abitazioni che separano le donne dagli uomini, con i mercati affollati, con le case di fango attraversate da rigoli in cui scorrono liquami, bambini che giocano tra i detriti, e che «se gli va bene» possono esplorare una casa in cui sono morti altri bambini e quindi trovarvi dei giocattoli. Storie di cui forse leggiamo nei quotidiani, o di cui, forse, non veniamo nemmeno più a conoscenza, data la triste abitudine che abbiamo fatto alle cronache di guerra.

Ma un romanzo ci impone, come dicono gli inglesi, una suspension of disbelief, un patto tra scrittore e lettore in cui quest’ultimo deve sospendere la sua incredulità e considerare la storia plausibile e coerente con la realtà. Quante realtà, quindi, ci appaiono più vivide e vicine tramite un romanzo che non tramite un resoconto giornalistico? Questa è una di quelle, così come lo era stato Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseimi, al quale il romanzo della Florio è stato avvicinato, nella sua capacità di raccontare una terra devastata da quarant’anni di guerre e di soprusi, ma profondamente affascinante pur nelle sue complessità e nelle sue contraddizioni. È quindi in questa terra lacerata come un corpo umano ferito, che le vicende di Liv e Farida e dei loro rispettivi mariti, poco per volta, si intrecciano e si dipanano, tra colpi di scena, misteri, tradizioni che ingabbiano o che forniscono, inaspettatamente, attraverso le loro stesse gabbie, incredibili vie di fuga.

Altro non andrebbe rivelato, della trama, perché l’autrice è davvero brava a tessere un racconto che poco per volta coinvolge il lettore fino ad arrivare all’ultimo centinaio di pagine dalle quali è impossibile staccarsi. I cattivi saranno sempre e solo cattivi? E i buoni — se vogliamo indugiare nel facile dualismo di una lettura etica — che interessi hanno o nascondono? Un finale tutt’altro che prevedibile racconta di esseri umani che scoprono, finalmente, cosa significhi capire se stessi e gli altri, sebbene a un prezzo molto alto. L’intelligente titolo scelto dall’editore italiano (in originale è Silent Hearts) va proprio in questa direzione. Nessuno è veramente straniero a un altro abitante di questo pianeta. È un titolo double face, come il romanzo stesso e le due simmetriche coppie.

di Alessandro Clericuzio