Il rapporto con il creato alle fondamenta del pensiero di Romano Guardini

Dio non è un albero
L’uomo non è un faggio

Duccio di Buoninsegna «Pentecoste» (1308-1311)
13 maggio 2020

In un libro composto da vari saggi che potrebbero leggersi anche senza seguire l’ordine con cui sono raccolti ed esposti, ma che nel loro complesso costituiscono comunque una vera e propria introduzione sistematica al pensiero teologico di Romano Guardini (1885-1968), Massimo Naro, docente di teologia trinitaria, epistemologia teologica e dialogo interreligioso nella Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia a Palermo, illustra una fondamentale polarità — per chiamarla alla maniera dello stesso Guardini — tra l’Esserci divino e l’esserci umano. Questa polarità viene individuata come quella che più efficacemente sintetizza l’interesse teologico-antropologico della riflessione credente del pensatore tedesco di origini italiane, scomparso ormai poco più che cinquant’anni fa.

Dalla ricerca di Naro — Archetipo e immagine. Riflessioni teologiche sulla scia di Romano Guardini (Rubbettino, 2018) — emerge che Guardini ricavò l’intera sua riflessione teologica dal messaggio biblico, elaborandola tuttavia tramite un vasto e complesso strumentario intellettuale, a un tempo filosofico (ontologico, fenomenologico, ermeneutico, estetico), storico-culturale, pedagogico e psicologico, talvolta persino sociologico.

L’antropologia cristiana che ne sortisce si incardina sulla considerazione dell’uomo come «immagine di Dio» (Ebenbild) in rapporto con Dio quale suo «Archetipo» (Urbild). Difatti, in questa prospettiva relazionale, Dio non è l’Assoluto della metafisica greca o delle moderne teodicee, bensì il Vivente che trascende la sua stessa trascendenza chiamando l’uomo a “esserci” in relazione con Lui e così situandolo «al cospetto di Dio»: l’uomo è innestato nel «dialogo pneumatico che Dio (il Padre) intrattiene con Dio (il Figlio)», la sola condizione che lo specifica rispetto al resto della creazione.

Tale teologia si esplica, dunque, in termini trinitari. E l’uomo, argomenta Naro commentando il personalismo di Guardini, «in forza della sua iconicità relativa al Dio che è assolutamente personale, è a sua volta anche e soprattutto “persona”, “immagine della persona divina” e come tale diverso e superiore alle altre creature, capace di svincolarsi dalle regole della natura, di cui è parte, per intrattenere un autentico dialogo con Chi lo invita a rivolgergli la parola». Così l’uomo, creatura iconica, è investito della luogotenenza nel mondo: posto a custodire e coltivare il mondo creato.

Il dramma sta nel cedimento alla tentazione da parte dell’uomo di autodeterminarsi, falsando l’immagine di Dio alla quale subentra quella che egli si fa di Dio, dimenticando pertanto il proprio nome — icona —, e chiudendosi alla relazione che originariamente lo costituisce: l’uomo si plasma da sé i propri idoli e — come è vero che sulla base della conoscenza che ha del divino, conosce se stesso, così — si assimila a loro, soggetto alla loro medesima corruttibilità.

Ma Dio è fedele a se stesso e al suo progetto: l’Uno e Unico dell’Antico Testamento è un mistero non inaccessibile, perché per grazia Egli si manifesta e nel volto del Cristo, secondo il quarto Vangelo, si manifesta nella dimensione relazionale di Unità e Trinità: «È soprattutto il Cristo giovanneo che rivela — secondo Guardini — il volto trinitario di Dio e la comunione in cui esistono e si relazionano in Dio l’io e il tu di Dio, i “volti” personali che in Dio “stanno rivolti l’uno all’altro”, nella “nitida distinzione ed intima comunione ad un tempo” dello Spirito Santo. E se il Cristo rivela “nel volto dell’uomo” la sua filiale divinità, egli è per ciò stesso “epifania” del volto paterno di Dio. Il Dio del Nuovo Testamento è, infatti, precipuamente Padre. La sua paternità si coniuga innanzitutto rispetto al Figlio eterno, sin da quel “principio” che “sta ancora dietro quello genesiaco”, in quanto non è meramente “la prima realtà del mondo”, ma la prima realtà in sé».

Su questi presupposti, i capitoli del volume si susseguono sviluppando coerentemente i termini di questo rapporto a partire da due definizioni suggestive e speculari di Guardini: «Dio non è un albero», «L’uomo non è un faggio». La verità di Dio è la verità dell’amore, che costituisce anche per l’uomo un criterio gnoseologico.

Nel rifiuto delle ideologie che contraddistingue la cultura odierna ogni forma sistematica di pensiero genera sospetto e poiché Guardini iniziò la sua carriera universitaria (a Berlino nel 1923) proprio con una cattedra ad personam di katholische Weltanshauung, si rese subito conto d’essere esposto al rischio di fraintendimento e della necessità di elaborare i fondamenti epistemologici della sua visione del mondo, spiegando l’opportunità di rinunciare alla conoscenza a priori che è propria alle filosofie e di adottare invece un punto di vista esterno, dall’alto: il punto di vista di Dio. Così per analogia inversa alla visione che ordinariamente l’uomo ha del mondo, percependosi al centro di esso, a partire dal messaggio genesiaco Guardini afferma che l’uomo conosce non per via teorica ma nella relazione. Anche nel rapporto con le cose si stabilisce una reciprocità per cui — già lo sosteneva sant’Agostino — mentre l’uomo si dispone a interrogare il mondo, le cose del mondo lo interpellano e dunque la conoscenza si dà nell’incontro tra conoscente e conosciuto, in una relazione di frontalità: «Essi non sono semplicemente chiusi l’uno nell’altro paghi della loro relazione: li accoglie invece un orizzonte più vasto, uno sfondo più grande, una ulteriorità che custodisce e determina la verità di entrambi». Da cui il riconoscimento di essere altro dal mondo, in virtù della relazione a Qualcuno che al mondo non appartiene, che chiama l’uomo ad essere e nel mondo lo pone distinguendolo dal mondo.

Guardini muove dalla critica dell’antropocentrismo che caratterizza la modernità portando a trascurare il concreto vivente. Egli nota che la tradizione filosofica occidentale distingue essenzialmente tra intuizione e concetto e che, dal momento in cui, nel tardo medioevo, al pensiero di matrice platonica sopravanza quello di ascendenza aristotelica, più concettuale e astratto, il concreto vivente è stato progressivamente rimosso, interpretato come oggetto dell’intuizione nella sfera dell’irrazionale, non scientifico. Da cui la frammentazione che riguarda sia il sapere che l’umano: occorre recuperare quella unitarietà del “pensiero intellettuale” pre-moderno per tornare a «un regime di conoscenza in cui dovrebbero essere metodologicamente recuperate insieme la forza unitiva dell’ut agostiniano e la chiarezza distintiva ma non divaricante dell’et tomistico» nella convinzione che «“in essenza” concetto e intuizione stiano in una profonda e reciproca relazione, come atti fondamentali dello spirito conoscente». E poiché a causa dell’inefficacia del metodo — a conoscere empiricamente e razionalmente non solo Dio ma anche l’uomo — la filosofia tardo-moderna si è estremizzata, divaricata tra idealismo e positivismo, spirituale ed empirico, Guardini fonda la sua critica reinterpretando la realtà in un paradigma di polarità: nell’alveo del pensiero platonico, egli elabora la teoria del Gegensatz mostrando il paradosso delle opposizioni nel concreto vivente, all’interno del quale i contrari per la logica sembrano escludersi, mentre “per essere” si esigono in un dinamismo vitale che salva la stabilità ontologica ma con essa salva anche il divenire: «Il Gegensatzsystem si caratterizza al contempo come una gnoseologia generale e come una ontologia fondamentale. Guardini, per mezzo di esso, illustra la struttura polare della conoscenza come corrispondente a una struttura altrettanto polare dell’essere, inteso questo nei termini del concreto vivente».

Ma il principio di opposizione polare funziona dal punto di vista di Guardini nel concreto vivente per la verità dell’uomo: in Dio la relazionalità e quindi anche la frontalità, sono — in uno stato di perfezione — in un rapporto di equilibrio; può essere utile estenderlo invece alla riflessione sul rapporto Archetipo/icona. Ora — senza addentrarci nell’articolazione del sistema oppositivo che Naro analizza entrando nel sistema delle opposizioni, distinte in trascendentali e categoriali, le quali categoriali suddivise tra empiriche e transempiriche — il passo successivo considera l’«asimmetria polare» del rapporto divino-umano: il donde e il verso dell’uomo («le dimensioni antropologiche teologicamente orientate» della sua origine e della direzione del suo esserci nel mondo) a fronte del sopra e dentro di Dio («le dimensioni teologiche antropologicamente situate» della trascendenza capace di travalicare l’altezza della sua alterità nella «intima prossimità»).

A partire dalla concezione guardiniana della teonomia, nei successivi capitoli Naro ristabilisce i termini della relazione teandrica indicando il nome nuovo dell’antica virtù del timore-di-Dio nella responsabilità di coloro che sono vocati a essere figli del Padre, prerogativa e “forma” in cui è superata la religiosità della paura che ha contraddistinto per troppo tempo una dogmatica sbilanciata sulla colpa e risoltasi spesso in mero amartiocentrismo.

La sintesi cui perviene Naro nell’ultimo capitolo recupera Guardini sul dibattito apertosi intorno al concetto di umanesimo per correggere, e integrare, la proposta di un umanesimo cristiano in senso lato proprio a partire dalla relazione filiale: in Cristo Gesù un umanesimo sempre nuovo.

di Anna Maria Tamburini