La fine delle scuole cattoliche in Libano?

Danno irreparabile

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29 maggio 2020

Per il quotidiano francofono libanese «L’Orient Le Jour» la lettera aperta indirizzata dal segretariato generale dell’educazione cattolica, presieduto da padre Butros Azar, al Presidente della Repubblica del Libano, il maronita Michel Aoun, è la “ vera bomba”: vi si legge che, in queste condizioni, alla ripresa autunnale l’80 per cento delle scuole cattoliche libanesi non potrà riaprire. Di lì a breve la stessa American University di Beirut, che nacque nell’Ottocento come Università Protestante, ha fatto sapere di temere lo stesso destino. Delle 1.556 scuole private solo 87 sarebbero in grado di resistere. In crisi sono soprattutto le scuole cattoliche medie e piccole, semi gratuite, che da cinque anni non hanno ricevuto le previste sovvenzioni statali. Paese giovane, il Libano ha circa un quarto dei suoi cittadini in età scolare. Di questo milione di alunni, i due terzi scelgono quelle private, poco più di 260.000 quelle pubbliche. È evidente che questo sviluppo non riguarderebbe solo il Libano, ma bisogna comprendere la sua ricaduta per il dialogo islamo cristiano e per tutto il Mediterraneo.

Leggendo la lettera del segretariato dell’educazione cattolica sembra di sentire uno dei padri del Risorgimento arabo, il cristiano Boutros al-Boustani, che avviava nell’Ottocento la sua impresa scolastica osservando: «I poveri che popolano questi quartieri non meritano alcuna cura, alcuna attenzione, alcun servizio?». Nell’odierno Libano le tantissime scuole cattoliche aperte a tutti sono il vero servizio offerto ai giovani per emanciparsi da una povertà di futuro al prezzo di una retta che il nuovo arcivescovo di Beirut dei Maroniti, Paul Abdel Sater, ha anche deciso di sospendere, per tutte le famiglie che non sono in grado di pagarla a causa della devastante crisi economica che avvolge il Paese.

L’obiettivo di Boutros al-Boustani non era la scuola confessionale. Lui pensava alla cittadinanza, e per formare veri cittadini non serviva un’istruzione piegata a narrative confessionali, ma una Scuola Nazionale, che fondò tra le polemiche di molti missionari protestanti che la chiamavano “Scuola dei Nativi”. In pochissimo tempo riuscì a portare centosedici tra maroniti, drusi e sunniti nella sua scuola, nonostante i massacri confessionali appena conclusisi a poca distanza, sul Monte Libano. I missionari protestanti gli dovettero dare ragione e il più famoso di loro, Cornelius Van Dyck, gli diede atto di un autentico miracolo, avendo messo insieme «figli di sceicchi musulmani, di preti fedeli al papa e di okkals drusi ad appena tre anni di distanza dai terribili massacri e bagni di sangue del 1860». Forse era destino che proprio Cornelius Van Dyck, con l’ausilio di un dotto dell’islam, avrebbe condotto in porto un progetto epocale, la traduzione in arabo della Bibbia, che plasmò l’arabo semplificato, quello che ancora oggi si usa su giornali e in televisione in tutto il mondo arabo.

Formare i cittadini è stato l’obiettivo di al-Boustani come dello sceicco musulmano Muhammad ’Abduh, che arrivando a Beirut fondò una scuola non tanto diversa da quella Nazionale di al-Boustani, l’Alta Scuola Ottomana. Nella sua scuola i ragazzi cristiani avevano la possibilità di partecipare ogni domenica alla celebrazione eucaristica. Lo storico Albert Hourani ha scritto che ’Abduh aveva capito che scopo delle azioni umane non è il proselitismo ma «la creazione di una civiltà umana che fiorisca in ogni campo». C’è tutto questo non solo dietro ma anche davanti all’annuncio di padre Butros Azar. C’è la storia e il futuro del Libano e del Medio Oriente, che è stata proprio quel “messaggio” di cui ha parlato Giovanni Paolo II al riguardo del Paese dei Cedri. Un messaggio che ha fatto i conti ovviamente con tremendi contro-annunci.

La “bomba” di padre Azar però non ha fatto il rumore delle vere deflagrazioni perché altre deflagrazioni lo hanno coperto. La lira libanese, che dalla fine della guerra civile nel 1990 è sempre stata cambiata al tasso fisso di 1500 per un dollaro, in questi mesi è precipitata a 3500, anche di più; la corrente elettrica viene erogata per poche ore al giorno; i prezzi non si fermano più e così il clamore scolastico è stato assorbito come un disastro “normale”. «L’Orient Le Jour» ha ragione? Se perdesse anche le sue scuole il Libano smarrirebbe la sua ragione sociale? Il sistema scolastico, soprattutto cattolico, è la pietra angolare intorno alla quale è stato costruito il Paese, da molto tempo prima del 1920, il suo anno di nascita. Tutto parla di missioni a Beirut, sia nel versante musulmano della città sia in quello cristiano. Il reticolo di strade rigorosamente verticali e orizzontali di Hamra, il cuore musulmano di Capo Beirut, lo testimonia. E proprio per connettere quest’area di insediamento missionario con il centro cittadino, attiguo al porto, furono costruite le prime arterie della città; solcarono o fiancheggiarono una casbah dopo l’altra, creando viali che non prevedevano più case con le finestre soltanto all’interno, sul patio casalingo, ma nuovi palazzi, dai quali si spalancarono le nuove finestre libanesi, le celebri finestre a tre archi. Finiva un mondo chiuso, nasceva lo spazio pubblico arabo. In questo spazio pubblico, dai tempi di Boutros al-Boustani, l’istruzione aperta a ragazzi e ragazze di ogni confessione ha svolto un ruolo cruciale.

Questa trasformazione urbana ha visto le due grandi università cittadine, la protestante American University e la gesuita Saint Joseph, diventare i polmoni dei due versanti della città, con in mezzo il grande complesso scolastico di Sagesse. Chiunque nel mondo arabo ha voluto davvero istruirsi sceglieva queste scuole, queste università. Beirut, la città che dal tempo delle riforme ottomane ne è diventata il simbolo, si è imposta soprattutto con il suo apparato educativo come città araba, europea, mediterranea, moderna e i due poli universitari hanno alimentato stamperie, teatri, caffè letterari e politici, costruendo l’anima di una città aperta, dove nel Novecento hanno trovato riparo esuli di tutto il mondo. Prima europeo, poi arabo.

Prima della guerra civile, quando il nazionalismo arabo si fece assoluto e pensò di nazionalizzare tutto, dalle banche al pensiero, dall’amore ai sogni, Beirut rispose con il suo cosmopolitismo, attirando i capitali in fuga da tutti i paesi arabi. E poi gli intellettuali in fuga.

Certamente il Libano è sopravvissuto a tante agonie; la più lunga è stata la guerra civile, che trasformò Beirut in un gigantesco Colosseo. Studente dei gesuiti, ma residente ostinato dell’altro quartiere, il maronita Samir Frangieh, insignito della più alta onorificenza francese, ha detto che quella guerra civile è stata anche una guerra contro la città, la sua mappa promiscua, fatta di viali all’europea e dedali di vecchie stradine, una città complessa che si univa nel centro cittadino dove tutto convergeva nel suo stile neo orientale, tra l’Opera e i suq. Ecco perché proprio il centro fu la vittima più martoriata delle opposte fazioni. Poi, pochi anni fa, un’altra agonia ha visto lo scontro politico arrivare a isolare con posti di blocco proprio il centro cittadino appena ricostruito, per togliergli il carattere di ritrovo comune: sciiti, sunniti, drusi, maroniti, ortodossi, la sera uscivano dai loro quartieri per diventare, nel centro, libanesi. Cosa è rimasto come vero collante? Cosa ha tenuto acceso “il messaggio” ? Il sistema educativo. Persi i cinema, i teatri, i caffè letterari, perso di nuovo il centro urbano come spazio comune, la stessa politica si è inchinata al sistema educativo libanese visto che le elezioni universitarie sono divenute il vero termometro del confronto culturale nel Paese. Vincere le elezioni nel campus dell’American University o in quello di Saint Joseph ha più rilievo che vincere un seggio parlamentare.

Beirut, città in crisi, è questa idea cosmopolita, mediterranea e levantina: nazionalismi e identitarismi l’hanno combattuta, ma non sconfitta. Sopravviverà a questa nuova agonia senza le sue scuole cattoliche?

di Riccardo Cristiano