Il covid-19 ha provocato un impoverimento generalizzato rendendo evidente la necessità di politiche internazionali inclusive

Dalle crisi globali si esce solo tutti insieme

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11 maggio 2020

Tra le tante immagini che in futuro accompagneranno il ricordo di questa pandemia figureranno certamente quelle delle persone in fila. In fila per fare la spesa, per entrare in farmacia, per accedere ai servizi postali o bancari.

Ma un’altra immagine, di cui molti avevano perso la memoria, segna in modo doloroso questi difficili giorni: le persone, dotate di mascherina, in paziente attesa davanti ai Monti di pietà, dove sperano di racimolare il necessario per tirare avanti qualche giorno. È un’“istantanea” che fa comprendere come, contrariamente a quanto previsto da alcuni frettolosi sociologi, il coronavirus non sia stato un grande livellatore. Ovunque, il contagio ha invece ampliato il divario socio-economico, facendo sentire i suoi devastanti effetti soprattutto sulle fasce più povere della popolazione e in particolare su quei gruppi privi di ogni tutela, come gli immigrati irregolari o i lavoratori “in nero”. Una situazione, questa, ancora più grave in quei paesi dove non vige lo stato sociale e le persone non godono di alcuna garanzia, nemmeno dal punto di vista sanitario.

Sono passati ormai due mesi da quando, lo scorso 11 marzo, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha dichiarato la pandemia da coronavirus. In quel momento si contavano 118.000 casi e 4.291 vittime. I dati di ieri, 10 maggio, parlano invece di 3.884.434 casi ufficiali e di 272.859 morti. Due mesi terribili, in cui il covid-19, seppur arginato in alcune zone grazie alle politiche di distanziamento sociale, si è abbattuto sul mondo con devastante, e forse inattesa, virulenza. Una virulenza che se ha aggravato il divario economico e sociale nei paesi occidentali, rischia di allargare a dismisura il solco tra paesi ricchi e paesi poveri.

L’occidente, anche se colpito duramente, è riuscito in qualche modo a combattere l’epidemia, perché complessivamente più preparato rispetto ai paesi con sistemi sanitari e sociali molto più deboli. L’Oms e le altre agenzie dell’Onu temono l’espansione della malattia in Africa e nelle altre regioni del sud del mondo, perché sono consapevoli che la diffusione del virus, per quanto lenta, non potrà essere contrastata in modo adeguato. Soprattutto per mancanza di risorse economiche.

In una drammatica conferma dell’interconnessione che lega il mondo, la crisi che ha colpito il ricco nord si è riverberata con violenza al sud. Il flusso delle rimesse di centinaia di milioni di migranti si è interrotto, sottraendo linfa vitale ai paesi in via di sviluppo, già costretti a devolvere buona parte dei loro bilanci al pagamento del debito estero. Una recente indagine del «Washington Post» ha dimostrato che la povertà globale aumenterà quest’anno per la prima volta in oltre due decenni. La Banca mondiale ha dal canto suo previsto che il coronavirus porterà milioni di persone alla miseria nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia meridionale. Secondo alcuni economisti, un improvviso impoverimento potrebbe riguardare l’8 per cento dell’umanità (circa mezzo miliardo di persone). Un impoverimento che significherà fame.

Non si tratta solo di fosche previsioni. Il mese scorso, per la precisione il 21 aprile, il direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale (Pam), David Beasley, durante un briefing video con il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha messo in guardia contro quella che ha definito «la peggiore catastrofe umanitaria dalla seconda guerra mondiale». Secondo Beasley la pandemia è destinata a raddoppiare il numero delle persone che soffrono la fame, incidendo tragicamente in situazioni locali già compromesse da guerre, eventi climatici estremi e carestie. Alle 135 milioni di persone che nel 2019 hanno sofferto di insicurezza alimentare acuta se ne aggiungeranno quindi, nel 2020, altre 130 milioni a causa dell’impatto economico del covid-19. Nel 2020 saranno così circa 265 milioni le persone nei paesi a basso e medio reddito che soffriranno di grave insicurezza alimentare. A meno che non vengano intraprese azioni rapide per contrastare questa vera pandemia della fame.

Una crisi globale avrebbe bisogno di una risposta globale per evitare che in futuro crisi locali e regionali possano avere effetti molto dannosi a livello planetario. Ma per il momento, mentre le grandi economie varano, giustamente, programmi di stimolo a nove zeri, solo qualche briciola viene devoluta ai paesi più poveri, che, vale la pena ribadirlo, spendono più per mantenere fede agli impegni con i creditori stranieri che per sviluppare i loro sistemi sanitari o le loro reti di produzione alimentare. Sempre nello scorso aprile, i paesi del g-20 hanno deciso di congelare, temporaneamente, il pagamento del debito estero di molte nazioni povere. Ma forse, come auspicato da molti, è giunto il momento di decidere la cancellazione del debito, per garantire maggiore solidità ai paesi in via di sviluppo, per fornire loro un’adeguata capacità di risposta in situazioni di emergenza e quindi per mettere al riparo il mondo intero dall’insorgenza di nuove crisi.

Sostenere le economie mondiali più fragili in definitiva conviene a tutti, ma anche in un momento come questo la solidarietà internazionale non sembra, per alcuni, essere una priorità. Inevitabilmente nel fare certe scelte, come quella di attaccare apertamente l’Oms e altre organizzazioni multilaterali, giocano valutazioni politiche legate a un orizzonte che potrebbe essere definito “domestico”. Un orizzonte troppo limitato per rispondere a una tragedia globale. E non è nemmeno escluso il rischio che la ricerca del vaccino possa generare una competizione nel tentativo di guadagnare una posizione dominante. Il ruolo delle organizzazioni internazionali dovrebbe essere proprio quello di impedire che certe tentazioni abbiano seguito e forse questo spiega i continui tentativi di delegittimarle.

Siamo tutti nella stessa barca, ha ricordato Papa Francesco nello straordinario momento di preghiera svoltosi il 27 marzo in una piazza San Pietro completamente deserta e sferzata dalla pioggia. Siamo «tutti chiamati a remare insieme». Una chiamata forte alla corresponsabilità e un monito sempre attuale. Perché dalla crisi del coronavirus, come da ogni altra crisi che coinvolge l’umanità intera, si esce in un solo modo. Insieme.

di Giuseppe Fiorentino