A cento anni dalla nascita, torna in libreria l'opera di Carlo Coccioli, uno scrittore ancora troppo poco conosciuto in Italia

Cronaca di un'amnesia annunciata

Particolare della copertina del libro «Fiorello, réquiem para un perro» (Impulso, 1973)
22 maggio 2020

«Testimonianza di un eccezionale talento (l’autore ha trent’anni) questo romanzo testimonia anche una preoccupazione specificamente metafisica che pone Coccioli sulla stessa linea di un Kierkegaard, di un Léon Bloy, di un Bernanos»: così si esprimeva, all’indomani della comparsa della traduzione francese, il saggista e romanziere Henri Daniel-Rops, recensendo Il cielo e la terra di Carlo Coccioli (1920-2003).

Non che quel libro, pubblicato da Vallecchi nel 1950, fosse l’opera d’esordio del giovane scrittore, livornese per nascita ma cosmopolita per vocazione. Il debutto ufficiale, con il romanzo Il migliore e l’ultimo, risaliva infatti al 1946. Il cielo e la terra segnava però la prima significativa rivelazione e, in pari tempo, la precoce consacrazione del Coccioli trentenne a livello internazionale. La sottolineatura anagrafica di Daniel-Rops intendeva in effetti valorizzare la sorprendente maturità di una narrativa nella quale la vastità, la profondità e la complessità della tematica religiosa sono calate in un contenitore formale di notevole duttilità e raffinatezza, secondo un’orchestrazione di sapienza assai più che giovanile: una partitura dove il percorso diegetico del narratore — prima esterno e poi interno, egli stesso partecipe delle ultime vicende raccontate — si intreccia efficacemente, in un’iridescente alternanza di registri espressivi, con le piste tracciate da lettere, relazioni, pagine di diario, attribuite di volta in volta sia al protagonista, il sacerdote Ardito Piccardi, sia a un drappello di personaggi secondari a lui inscindibilmente legati.

L’encomio di Daniel-Rops, del resto, rispecchiava in Francia il plauso tributato a Il cielo e la terra anche dall’intellighenzia italiana. Cui si associava l’ottima accoglienza da parte del pubblico, attestata da numerose ristampe, oltre che dalle traduzioni in una quindicina di lingue. Ma dietro l’angolo di questo exploit si nascondeva il fatidico agguato del nemo propheta in patria. Nacque ben presto un “caso Coccioli”, consistente in una sorta di larvata frizione tra lo scrittore espatriato fin dal 1949 e il nostro establishment culturale.

Da un lato Coccioli, perseguendo con accanita coerenza il suo modello di intellettuale indipendente, talora polemico e spesso orgogliosamente controcorrente, incapace tanto di esibire quanto di dissimulare la propria sofferta omosessualità, riluttava ad omologarsi alla società letteraria italiana con le sue convenzioni mondane, la sua ritualità autoreferenziale, le sue compromissioni politiche.

D’altro canto, come evidenziò Giancarlo Vigorelli nel 1976, in occasione della pubblicazione presso l’editore Rusconi di Davide, «polifonico romanzo autobiografico del grande re biblico», non si perdonavano a Coccioli certe sue peculiarità “eretiche”: la prolungata permanenza all’estero, prima a Parigi poi (dal 1953) a Città del Messico; la capacità “scandalosa”, forse unica nel panorama della moderna Weltliteratur, di scrivere e pubblicare decine di libri, con sbalorditiva maestria, in tre lingue, italiano, francese e spagnolo, tanto da acquisire in Francia e nel mondo latinoamericano, ben più che in Italia, un patrimonio di stima e notorietà.

A ciò si aggiungeva — in un periodo storico e in un contesto sociale egemonizzati dal secolarismo — la diffidenza, per non dire l’avversione, degli “addetti ai lavori” nei confronti della conturbante, persino esplosiva problematica religiosa sottesa ad ogni romanzo di Coccioli. Problematica religiosa, occorre precisare, che nel corso del tempo andava sconfinando dall’area di un cattolicesimo integrale (non integralista!) ancorché inquieto, per traslocare in territorio ebraico (una “conversione” annunciata nel 1970 da Documento 127) e in seguito migrare, con inesausta ricerca spirituale, anche verso talune tradizioni religiose orientali.

Fu proprio Davide, finalista all’edizione 1976 del Premio Campiello, a sancire una provvisoria riconciliazione del non più emarginato Coccioli con larga parte della critica italiana: «Siamo oggi più vicini di quanto non lo siano, come dicono gli spagnoli, l’unghia e la carne» commentò soddisfatto l’autore nella premessa all’edizione economica del recuperato Il cielo e la terra (Rusconi, 1977). Sì, perché il rinnovato favore dei critici e dei lettori aveva suggerito all’editore milanese di ristampare i testi più rappresentativi della produzione coccioliana.

A partire dall’ormai obliato romanzo del 1950. Che oggi, nel centenario della nascita dello scrittore, grazie all’encomiabile intraprendenza dell’editrice torinese Lindau e al suo progetto di ripubblicare pressoché integralmente le opere di Coccioli, risorge a nuova vita (pagine 400, euro 24): scelto — insieme a L’erede di Montezuma (pagine 520, euro 24) — per inaugurare la collana «Piccolo Karma» e rivelare a quanti ancora non lo conoscono quell’“eccezionale talento”.

Don Ardito Piccardi domina Il cielo e la terra dalla prima all’ultima pagina. Da lui si diramano tutti i fili della narrazione, intorno a lui orbitano i destini di tutti gli altri personaggi: «Lui (...) era il centro d’una ruota. Il mozzo d’una ruota, e gli altri n’erano i raggi; dipendenza reciproca, certo; ma lui stava nel centro». Molteplici sfaccettature compongono il poliedro del suo stile sacerdotale orientato — con una tensione verso la trascendenza mai disgiunta, al di là di tempestose inquietudini, da un umile radicamento pastorale nella quotidianità del suo gregge — all’ideale di una santità dedita ad elevare un ponte fra la terra delle lacrime umane e il cielo della gloria divina. Dotato di singolari carismi, don Ardito avverte l’amorosa assistenza di Cristo anche nelle situazioni più drammatiche del suo ministero, in mezzo al pullulare del peccato.

Ma percepisce, nel contempo, che l’ombra del Nemico non cessa di braccare lui stesso e alcune infelici creature a lui affidate dal Signore. E si prefigge di lottare fino allo spasimo contro quella potenza demoniaca che, come osservava Dostoevskij, combatte con Dio su un cruciale campo di battaglia: il cuore dell’uomo.

Nella prima parte del romanzo, estesa dal 1927 al 1936 e visibilmente influenzata dalla lezione di Bernanos e Mauriac, vediamo il giovane don Ardito operare, per sua stessa aspirazione esaudita dal vescovo, come parroco di un paesino di montagna, Chiarotorre. L’infaticabile dedizione al bene dei più poveri e bisognosi tra i suoi parrocchiani, la rigorosa austerità di vita, la mistica intensità delle preghiere, delle celebrazioni e delle omelie conquistano le anime dei semplici, dei “piccoli”, mentre suscitano l’ostilità dei notabili e dei borghesi aggrappati ai loro privilegi, alla “roba” avidamente posseduta.

Don Ardito soffre di non riuscire a farsi amare da tutti i valligiani per quello che egli è veramente, per la sua concezione di un Vangelo predicato e praticato sine glossa. Il quadro muta però radicalmente quando, in seguito all’apparizione della Vergine a un’umile fanciulla, si verifica un miracolo sensazionale (la guarigione di un ragazzo paralitico) propiziato dalle invocazioni del sacerdote a fianco della veggente. Un consenso ormai unanime consacra la sua fama di santità.

Ma don Ardito dubita d’esser degno del sacerdozio perché — tragico contrappunto al miracolo — si rimprovera di non aver saputo salvare dal suicidio un giovane omosessuale che, perseguitato da satanici sensi di colpa, a lui si era disperatamente appellato.

In piena crisi vocazionale, dopo essersi confidato con il suo direttore spirituale (le comunicazioni intime con monsignor Zanardi e con un paio di amici sacerdoti figurano tra i momenti più alti del romanzo), don Ardito imprime al suo percorso esistenziale una svolta imprevedibile. Si trasferisce nella città di M. e lascia la cura d’anime per dedicarsi dal 1936 al 1943, nell’ambito di un istituto culturale ed educativo cattolico, agli studi teologici e all’attività di conferenziere.

I suoi libri e i suoi discorsi, come ispirati da un’invisibile Presenza e improntati a una visione della fede profeticamente innovativa, anticipatrice del grandioso aggiornamento promosso di lì a vent’anni dal Vaticano II, affascinano un pubblico sempre più vasto ed entusiasta.

Senonché, paradossalmente, questo successo, anziché gratificarlo, acuisce la nostalgia del prete per la dura ma appassionante esperienza di pastore tra gli abitanti di Chiarotorre. Finché matura in lui la decisione di ritornare alle origini.

E proprio a Chiarotorre ritroviamo don Ardito nella terza parte del romanzo, nell’epilogo che mette in scena il suo eroico abbandono della Terra coincidente, nel segno del martirio, con l’ascesa al Cielo.

Siamo nel dicembre del 1943. La guerra, che in precedenza era apparsa solo sullo sfondo, ha investito il villaggio e ora contrappone un nucleo di partigiani a un reparto dell’esercito di occupazione nazista. Catturato dai soldati tedeschi insieme al narratore e a quattro giovanissimi resistenti, don Ardito — che pure, per amore incondizionato verso i combattenti di entrambe le parti, aveva persuaso un capo partigiano a rinunciare a una possibile strage — si autodenuncia di fronte al capitano Herzog come autore dell’attentato che sta per scatenare una rappresaglia, in modo da salvare, con l’offerta della sua vita, le vite dei suoi altrettanto innocenti compagni di sventura. L’ufficiale non gli crede. Ma accetta lo scambio per “stare al gioco”: un gioco in realtà “comandato” dall’abnegazione dell’uomo in tonaca nera.

E il racconto del narratore si chiude sul sinistro crepitio di una scarica di fucileria “fuori scena”. Tutto fa supporre che don Ardito, emulo di Cristo, abbia così sublimato fino all’estremo sacrificio la sua santificazione, passando dall’«amare gli uomini in Dio» all’«amare Dio in ogni uomo». Ma davvero il sacerdote è morto fucilato? La pietra bianca, romanzo-sequel tradotto in Italia dal francese nel 1959, racconta una diversa verità...

di Marco Beck