Il coronavirus non ha fermato i laboratori artigianali nelle case di reclusione femminili

Con il lavoro in carcere da protagoniste

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02 maggio 2020

Le donne in carcere spesso vivono un doppio dramma: quello della detenzione e quello dell’essere mamme non in grado di svolgere il proprio ruolo. Inoltre hanno per natura un modo differente di vivere la reclusione; per questo le sbarre dovrebbero essere l’ultima risorsa prima di considerare forme di pena alternativa. Sono due i momenti più duri della vita in carcere all’interno degli istituti femminili: il periodo di agosto e quello natalizio. Comprenderne le ragioni è fin troppo facile. Ma se a questi due appuntamenti segnati in nero sul calendario della cella se ne aggiungesse un terzo? Un tempo inatteso, caratterizzato da ulteriore sofferenza e da nuove restrizioni, scandito da azioni quotidiane mai compiute. Un tempo imposto da un nemico invisibile, chiamato covid-19, che aumenta le distanze, di per sé già incolmabili, tra carcere e società. Come reagire? «Lavoro e solidarietà sono state le due carte vincenti per affrontare al meglio questo periodo», spiega Luciana Delle Donne, fondatrice di «Made in carcere», associazione che dal 2007 realizza corsi di taglio e cucito nelle case circondariali di Lecce e Trani. «Abbiamo subito cercato di coinvolgere le ragazze in un progetto mirato dalla duplice finalità: mantenere l’occupazione e dare una mano a chi ne aveva bisogno. Da qui è nata la riconversione delle nostre sartorie che, in questi giorni, stanno producendo mascherine. È un tassello importante che abbiamo aggiunto alla nostra esperienza», continua Delle Donne.

Dopo un primo momento di disorientamento, «abbiamo subito pensato alla sicurezza e alla dignità della comunità carceraria. Sono emerse tutte le caratteristiche individuali. Abbiamo capito che ci sono tante detenute che hanno voluto essere protagoniste in questo momento di difficoltà nazionale. Papa Francesco dice che  non  possiamo andare avanti ciascuno per conto proprio, ma solo  insieme.  Nessuno si salva da solo. Questo le ragazze lo hanno ben capito». E, al Papa, Luciana Delle Donne ha fatto indossare, in occasione della visita nel penitenziario di Poggioreale (21 marzo 2015), uno dei braccialetti realizzato dalle sue ragazze riportante la frase Non fatevi rubare la speranza.

Stesse dinamiche, con risultati altrettanto sorprendenti, si sono manifestate a Forlì. «Il 24 febbraio sono state sospese tutte le attività. Interrompere la filiera e privare le ospiti dell’abituale occupazione avrebbe aperto la strada a una nuova sofferenza», racconta Manuela Raganini, presidente di «Formula solidale», cooperativa sociale che si pone come obiettivo l’inserimento lavorativo di persone particolarmente svantaggiate e che opera con le ospiti del carcere della città romagnola. «Ci siamo date subito da fare per realizzare mascherine in cotone lavabile, per noi, per il personale che si occupa delle pulizie, per chi lavora nelle case di riposo e chi consegna i pacchi a domicilio. Abbiamo consegnato le macchine da cucire alle ragazze che lavorano fuori e tessuti ai laboratori interni. Una piccola iniziativa promossa senza tanti clamori, oggi si è estesa anche ad aziende e a privati che ne hanno fatto richiesta. Alla fine, stipendio garantito e impiego di pubblica utilità. Le nostre ragazze hanno subito una trasformazione degna di nota: da assistite ad assistenti del territorio», conclude.

Fermare a Napoli la pizza e il caffè non è certo impresa facile. Lo sanno bene le ragazze delle «Lazzarelle», cooperativa di sole donne nata nel 2010 che produce caffè artigianale, secondo l’antica tradizione napoletana, all’interno del più grande carcere femminile di Pozzuoli. «Fortunatamente l’istituto ci ha consentito di entrare perché la torrefazione è al suo interno. Dato che gli esercizi che abitualmente serviamo — bar e ristoranti su tutti — hanno chiuso, ci siamo, per così dire, reinventate», chiarisce Imma Carpiniello, presidente della cooperativa. «Visto che possiamo contare su un laboratorio molto grande, siamo riuscite a mantenere le distanze di sicurezza e a rispettare i dettami della prevenzione utilizzando mascherine e gel disinfettante. Abbiamo poi lanciato un post su Facebook e inviato una mail ai nostri contatti dicendo: “Noi siamo tornate”», spiega Carpiniello, che aggiunge: «Per abbattere i costi di spedizione abbiamo stretto un accordo con i corrieri e questo ci ha consentito di continuare a lavorare spedendo ovunque il nostro caffè». C’è dunque chi si è rimboccato le maniche e chi, invece, ha giocato d’anticipo puntando sulla solidarietà.

A Venezia, nella casa di reclusione femminile  della Giudecca, «il virus ha colto un po’ tutti di sorpresa», chiarisce suor Franca Busnelli, religiosa delle Suore di Maria Bambina, che presta servizio da sei anni nel carcere della laguna. «Questo è stato uno dei primi istituti che si è distinto per gesti molto significativi di solidarietà. Fra tutti, la raccolta fondi (110 euro) poi donati al reparto di terapia intensiva dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre. Le ragazze hanno voluto così testimoniare la loro vicinanza agli ammalati, ai loro familiari, ai medici e agli infermieri. Nel contempo hanno inviato una lettera al presidente della Repubblica italiana alla quale lo stesso Mattarella ha risposto, elogiando l’iniziativa delle ospiti», racconta la religiosa.

L’investimento sulla formazione personale e lavorativa è una componente fondamentale e irrinunciabile della proposta trattamentale diretta alle donne detenute. Lo è ancora di più in questo momento anche se le filiere di produzione sono ferme. «Il lavoro si è bloccato per due settimane», rivela suor Franca. Sartoria chiusa, così come la lavanderia, l’area della cosmesi e perfino l’orto. Ma «da alcuni giorni l’attività è ripresa e le ragazze stanno producendo mascherine sia per l’interno sia per l’esterno». Per la religiosa, «manifestare solidarietà in un momento così difficile le aiuta a sentirsi parte attiva di una comunità, nella speranza che quando giungerà il momento di tornare a casa troveranno una società disposta ad accoglierle e a farle sentire donne e cittadine utili alla società come tutti gli altri».

di Davide Dionisi