Una rilettura de «Il deserto dei tartari»

Chiusi nella fortezza

Il personaggio del Gran Colombre in un disegno di Dino Buzzati
19 maggio 2020

L’attualità di Buzzati, il cantore della solitudine


La recente riproposta del racconto Qualcosa era successo, dove si parla di un treno in corsa verso una Milano messa in ginocchio da una misteriosa e terribile infezione, ha riportato di stringente attualità il nome di Dino Buzzati. È la paura che ossessionava lo scrittore e che ancora oggi ci attanaglia: «Un ragazzino tentò di rincorrerci con un pacco di giornali e ne sventolava uno che aveva un gran titolo nero in prima pagina. Allora, con un gesto repentino, la signora di fronte a me si sporse in fuori, riuscì ad abbrancare il foglio ma il vento della corsa glielo portò via. Tra le dita restò un brandello. Mi accorsi che le sue mani tremavano nell’atto di spiegarlo. Era un pezzetto triangolare. Si leggeva la testata e del gran titolo solo quattro lettere, ione, si leggeva. Nient’altro».

Ma pensiamo in proposito a quanto sia attuale, a ottanta anni dalla sua nascita, Il deserto dei tartari. Eccoci ancora qui, tutti chiusi nella nostra fortezza Bastiani. Il distanziamento sociale, l’isolamento, la solitudine. Come Giovanni Drogo, «crediamo che attorno a noi ci siano creature simili a noi e invece non c’è che gelo, pietre che parlano una lingua straniera, stiamo per salutare l’amico ma il braccio ricade inerte, il sorriso si spegne, perché ci accorgiamo di essere completamente soli».

La perenne attesa dei tartari, il male invisibile, come nel film che dal romanzo ha tratto Valerio Zurlini. Lo scorrere uguale del tempo, le giornate fotocopia, la mancanza di qualsiasi punto di riferimento. È il deserto dell’anima. E c’è il rischio incombente ogni giorno di più di un virus peggiore, quel virus dell’egoismo di cui ha parlato Papa Francesco: «Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono sempre lontani».

Nei confronti dell’opera del grande narratore bellunese la critica è stata spesso ingenerosa. Giacomo Debenedetti, riprendendo a proposito dei Sessanta racconti il giudizio estremamente positivo di Emilio Cecchi in una recensione a Il crollo della Baliverna, ne ridimensionava la portata. Secondo il giudizio del critico torinese in quel suo scritto, intitolato Buzzati e gli sguardi del di qua, lo scrittore «maneggia strumenti nati per creare il brivido cosmico, ne ottiene misurate, sopportabili emozioni». Come il protagonista di un suo racconto, anch’egli «è un borghese stregato, stregato ma borghese, e fedelmente e con educazione così perfetta da diventare anche stile». E ciò, a giudizio del critico, trova conferma nei limiti dello stile: «La sua parola, la sua frase paiono fatte apposta per mantenersi nel modo più ligio, a livello quotidiano delle apparenze. La parola non ambisce di immedesimarsi, impressionisticamente o espressionisticamente, con la materia sensibile o la sostanza ineffabile delle cose. Rimane il segno convenzionale, di cui tutti ci serviamo per la nomenclatura ordinaria. E la frase sembra, per lo più, che si contenti di mettere in ordine quei nomi, di indicarne i nessi, di articolare le azioni, secondo le regole della comunicativa più abituale».

Come non dissentire dal grande critico quando considera tutta la narrativa di Buzzati un itinerario ai limiti dell’«universo a noi proibito» che si arresta al di qua, appunto, dei suoi esiti estremi e conclude: «Bisogna essere artisti più invasati, più coatti, e anche più sostanziali di lui, per sentirsi arruolati al servizio ossessivo di un unico tema?».

Tra i motivi dello scarso consenso critico di Buzzati bisogna ricordare che proveniva dal giornalismo e perciò molti letterati lo guardavano un po’ dall’alto per una sorta di ingiustificato complesso di superiorità. Nel 1933, infatti, l’anno del suo esordio narrativo con Barnabo delle montagne, Buzzati lavorava nella redazione del «Corriere della Sera», dove era entrato nel 1928.

Inoltre si può aggiungere che i suoi libri, tra i quali spiccano per eccellenza Il deserto dei tartari, Sessanta racconti, con cui vinse il Premio Strega, si iscrivono nella dimensione, poco praticata fino a quegli anni nella nostra letteratura, del fantastico, un fantastico che nasce spesso dalla cronaca o dalla cronaca prende avvio per invenzioni ora angosciose, ora suggestive ma sempre inquietanti sul mistero che circonda la nostra vita e che all’improvviso penetra dentro come da uno spiraglio, da un oblò lasciato chiuso, motivi che sono agli antipodi degli schemi e dei moduli narrativi di impianto naturalistico prevalenti nel neorealismo letterario allora imperante.

Infine ancor più doveva pesare sul giudizio dell’opera di Buzzati la mancanza nell’uomo e nello scrittore di qualsiasi forma di engagement o impegno socio-politico, in ciò in linea con altri grandi del suo periodo come l’autore del Gattopardo e quello del Giardino dei Finzi Contini che dovevano conoscere, accanto ad un larghissimo consenso di pubblico, analoghe riserve da parte di una critica non disposta a riconoscere come altro e ben diverso dovesse essere l’impegno, libero da condizionamenti o mode, dell’artista.

A quell’impegno appunto rispondono i libri di Buzzati che più sono destinati a durare nel tempo e meglio permettono di conoscere i modi e le forme della sua attività. Esemplare, come abbiamo detto, nella sua perenne attualità è Il deserto dei tartari, la storia del tenente Giovanni Drogo.

Inviato in un fortino al confine del deserto, Drogo vi attende per tutta la vita il nemico e la gloria sperata. Ma solo con la morte dopo anni di vana attesa, egli dà senso alla sua vita, consumata nella dignità del dovere. È un senso concreto della vita e dell’ordine che la esprime, cui lo scrittore non sa e non vuole rinunziare, malgrado tutte le negazioni che giorno per giorno ha dovuto infliggere al suo eroe: «La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna. Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse un soffio di vento, un semplice risucchio d’aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride».

Se è vero che la cifra della grandezza di Buzzati sta in quell’autocontrollo che ha sempre cercato di esercitare sul lato oscuro del suo temperamento — la tristezza, la sensualità — non meraviglia il fatto che molti critici abbiano provato difficoltà a mettere insieme quella parte dell’opera di Buzzati, i cui motivi sono così fusi nella loro immediatezza espressiva, nella loro contenuta intensità poetica, con la storia che narra gli amori dell’architetto Dorigo e della giovane prostituta Laide, protagonisti di Un amore, l’ultimo romanzo apparso nel 1963.

Ma giustamente i critici più avvertiti, da Montale a Piovene, hanno sottolineato la dimensione di «poeta puer», di poeta bambino. Forse l’immagine più viva e più significativa che “sintetizza” Buzzati è quella dello scrittore, ormai gravemente malato, costretto a fare anticamera di fronte alla porta della direzione del «Corriere» dove il politico di turno che lo dirige è impegnato in altra conversazione. Così lo descrive Giovanni Mosca, nelle pagine conclusive del suo ultimo, delicato romanzo, La signora Teresa.

di Sabino Caronia