Cronache dal nichilismo - IX

Chiedimi se sono felice

Marc Chagall, «La passeggiata» (1918)
05 maggio 2020

Tra realtà sensibile e tensione al divino


Ma alla fine riusciremo davvero a essere felici? La tacita promessa che ci inquieta, e a volte ci rode, avrà compimento? O lascerà dietro di sé solo un rimpianto? Quella della felicità è come l’intenzionalità profonda in ogni nostro gesto, in ogni nostro atto di conoscenza, in ogni iniziativa. Certo, di volta in volta noi vogliamo una cosa o un’altra, miriamo a determinati risultati, cerchiamo di risolvere problemi particolari, ma è quell’attesa di auto-compimento il motore che dà avvio ed energia al nostro moto umano.

Normalmente noi guardiamo a questa attesa con una specie di pudore, o come ha scritto una volta Rilke, con «vergogna», quasi si trattasse di «una speranza che non si può dire» (Elegie Duinesi, ii). Tutto lo sforzo del pensiero umano, almeno in quella parte del mondo in cui si è affermata la filosofia occidentale, ha da sempre mirato a questa realizzazione impronunciabile: e come si potrebbe mai definire la pienezza della vita, cioè una soddisfazione che non sia solo di un momento passeggero, ma che duri per sempre? Certo, a noi “nichilisti” viene quasi d’istinto maneggiare queste parole con molta cautela, mista a scetticismo, tanto è grande la loro pretesa e tanto bruciante la disillusione che abbiamo molte volte provato. Per cui la felicità resta come ai margini dei nostri programmi, un’attesa in fondo irragionevole, appunto perché non può essere calcolata. E spesso, quando magari abbiamo cercato di produrla noi, la felicità si è rivelata in fondo un sogno irrealista, forse impossibile.

E dire che il problema della felicità è stato il movente di gran parte della nostra storia — personale e culturale — fino a essere addirittura codificato come un «diritto inalienabile» nella Dichiarazione di indipendenza americana del 1776: «il diritto a ricercare la felicità» (pursuit of Happiness).

Le grandi strategie del mondo classico, greco e latino, brillano ancora per la loro elevatezza; ma quanto più risplendono tanto più si allontanano come corpi celesti irraggiungibili. Come non pensare all’ideale aristotelico secondo cui la perfetta felicità consiste nell’attività contemplativa? Un’attività cui solo gli dèi e i filosofi possono arrivare, perché in essi trova compimento la natura razionale della vita, quella che ci rende liberi di vedere il mondo disinteressatamente, nella sua necessità ed eternità. Ma viene alla mente anche il controcanto epicureo, o di uno stoico antico, secondo cui l’uomo può essere felice solo se riesce a moderare i suoi bisogni e raggiungere l’assenza di turbamento e di affanno per l’anima, “contento” — cioè soddisfatto e insieme delimitato — nelle proprie stesse misure. In entrambi i casi gli esseri umani sono chiamati a realizzare la felicità attraverso l’esercizio delle loro virtù o grazie a una strategia difensiva.

Nel mondo pagano la filosofia serviva proprio come una specie di «esercizio spirituale», secondo la fortunata formula di Pierre Hadot, o come una specie di «terapia dell’anima» (ne ha molto parlato Giovanni Reale) per tentare di raggiungere la felicità. È con l’irrompere dell’avvenimento di Cristo e con lo sviluppo del pensiero cristiano che la felicità non è più ciò che si può raggiungere con la filosofia o con altre strategie mentali, perché la grazia di Gesù non è rivelata in prima istanza «ai sapienti e ai dotti» ma «ai piccoli» (Matteo 11, 25). E questi piccoli non sono appena gli “ignoranti”, ma coloro che hanno la semplicità della fede, cioè riconoscono la venuta di Colui che può rendere felice la vita anche, e soprattutto, a chi non è capace di farlo da sé. Ma c’è qualcuno che può dire sinceramente di esserlo?

Da questa rivoluzione della felicità, come ciò che un Altro può compiere nella propria vita, è nata un’idea fondamentale per la nostra civiltà, e cioè che la perfezione non coincide innanzitutto con l’esito delle nostre capacità, ma con l’accadere o il dono di qualcosa che è molto più di quanto ci fossimo meritati. Provate a eliminare dalla vostra coscienza e dalla narrazione della vostra esistenza quest’idea di gratuità, e non riuscirete più neanche a sostenere l’idea di poter essere felici. E con essa non riuscirete più a rendere sopportabile l’idea stessa della vita.

Ed è in effetti quello che è accaduto in quei sistemi di pensiero “moderni” che hanno voluto interpretare la rivoluzione cristiana della felicità in senso puramente “etico”. Per esempio nella morale di Kant, che pure si propone come l’erede più maturo della tradizione cristiana, perché riconosce, al di sopra della sfera degli interessi sensibili ed egoistici, un mondo ideale dello spirito e della libertà. Il punto è che questa libertà per realizzarsi ha davanti a sé solo una via: obbedire — come proprio dovere — all’imperativo della legge morale che la ragione impone autonomamente a sé stessa. La legge comanda “a priori” di seguire ciò che è universale, cioè raggiungibile da ogni uomo grazie alla propria ragione, e di non seguire il desiderio individuale di essere felici. La felicità diventa il prezzo da pagare per essere uomini davvero “morali”. Per essere virtuosi non si deve mirare a essere felici.

Questa inimicizia tra il dovere e la felicità è stata una delle micce che ha fatto scoppiare il nichilismo contemporaneo. Nietzsche ad esempio mostra, con la sua consueta ma lucida violenza interpretativa, che si tratta di una falsa alternativa: il dovere delle società borghesi, pensato senza la felicità, fa sì che quest’ultima si riduca ad accontentarsi di ciò che l’ordine sociale e gli standard culturali in auge hanno già deciso. Tutto questo va distrutto: questa è «l’ora del grande disprezzo (...) l’ora in cui direte: “Che importa della mia felicità! Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere”» (da Così parlò Zarathustra). Dunque per salvare la felicità dal mondo del calcolo borghese, bisogna intenderla e perseguirla come il caos e il caso irrazionale, un vitalismo senza scopo.

Il fatto è che se stacchiamo la ragione dalla felicità rischiamo probabilmente di perderle entrambe: l’una ridotta a un meccanismo di pianificazione costi/benefici, l’altra ridotta a sogno violento o disilluso (chi ricorda il film Joker di Todd Phillips con il tragico Joachin Phoenix?).

Ma forse per riconquistare la loro unità non dobbiamo più proiettare, e con ciò liquidare, la felicità come l’esito di un nostro progetto o di un nostro comportamento, ma riconoscere che essa è già presente — qui, ora — come parte della nostra vita, come motore e criterio di ogni nostro desiderio. Come una volta si è chiesto Agostino: se è vero che tutti, senza eccezione alcuna, anche coloro che sono tristi e sfiduciati, vogliono essere felici, dove hanno conosciuto la nozione stessa di “felicità” per poterla desiderare? Se non la conoscessero in un certo modo, non potrebbero neanche ricercarla. Ma tutti l’abbiamo scoperta quando ci siamo rallegrati di qualcosa, e questo ha generato un gaudium, un godimento nel nostro essere. Questo godimento è la traccia presente senza la quale non cercheremmo neanche di essere felici, non saremmo neanche orientati e protesi al futuro.

Tutto risolto, dunque? Per nulla affatto: tutto di nuovo in gioco, piuttosto. Perché questo pone la domanda più rischiosa rispetto alla felicità: c’è qualcosa o qualcuno che risponde veramente a questa ricerca? E non c’è da aver timore di non accorgersene: se è la risposta vera, non può che far godere il cuore e far respirare la ragione. Agostino, con l’acutezza di uno che ha attraversato tutta la sfida del nichilismo, anche se il nome non era ancora questo, l’ha individuato con le tre semplici parole gaudium de veritate (Confessioni, x.23.33).

di Costantino Esposito