Il racconto dell'epidemia nei secoli

Castigo e delitto

Charles Francois Jalabert, «La peste di Tebe» (1842)
19 maggio 2020

La peste di Tebe nell’«Edipo re» di Sofocle


Dal piedistallo alla polvere, dalla grandezza alla miseria. Basta poco, molto poco perché la vita di un uomo e di un intero popolo cambi in un attimo. In peggio. All’inizio della tragedia Edipo re di Sofocle, il protagonista appare al culmine del potere. Non c’è chi non lo veneri, chi non lo rispetti, chi non ne segua ed esegua gli ordini. Ma è sufficiente un brevissimo tratto di tempo per capovolgere lo scenario e per mutare radicalmente gli equilibri. Nel volgere di un solo giorno infatti Edipo viene a conoscere l’orrenda verità del suo passato: senza saperlo ha prima ucciso il padre per poi generare figli con la propria madre. Insomma, un assassino incestuoso. La tragica epifania fa sì che svapori la stima altrui nei suoi confronti, come pure la stima che Edipo aveva di sé stesso, credendosi egli un uomo ligio e onesto. Sconvolto da queste rivelazioni, Edipo reagisce accecandosi, perde il titolo di re di Tebe e, come atto supremo di espiazione. chiede di andare in esilio.

Sofocle intende simboleggiare con potente vigore, nella lacerata figura di Edipo, la fragilità umana. E volendo infierire su un destino individuale già irrimediabilmente segnato, introduce un elemento dalle letali conseguenze, ovvero la pestilenza.

Essa è utilizzata dall’autore come strumento per consentire a Edipo di compiere, fino all’ultimo respiro, il proprio travagliato itinerario di vita. Attraverso la traumatica esperienza di Edipo si sviluppa e si consuma il conflitto fra volontà divina e responsabilità individuale. In questa temperie l’epidemia si manifesta come conseguenza della colpa di Edipo che ha oltraggiato e sovvertito l’ordine naturale dell’esistenza, avendo appunto tolto la vita al padre che gliela aveva donata, e giaciuto, somma vergogna, con la madre. Di fronte al tribunale della coscienza poco o nulla importa che tali raccapriccianti gesta siano state compiute nell’inconsapevolezza. La pestilenza, in tal senso, seminando lutti e sventure serve a ricordare a Edipo che egli non può contare su nessuna forma di innocenza. Anzi, nel voler conoscere a tutti i costi la verità del suo passato, dissotterrandola dall’oblio e svincolandola dall’omertà, Edipo si macchia di un’ulteriore colpa: quella della hybris, ovvero quella tracotanza che gli antichi ritenevano una colpa gravissima. Edipo ha superato limiti che all’uomo non è concesso di varcare. L’infuriare della pestilenza è l’alto prezzo da pagare per cotanta prometeica arroganza. A dispetto delle raccomandazioni formulate dall’indovino Tiresia e dalla stessa madre Giocasta, che lo esortano a non scavare nel passato, Edipo, risoluto e imperturbabile, va incontro al proprio destino, finendo per contemplare una verità che non potrebbe essere più dolorosa.

La pestilenza che flagella Tebe domina il prologo della tragedia. Edipo è impegnato nel tentativo di debellarla, mentre una folla supplicante lo implora affinché egli liberi tutti dal contagio. Sovrano illuminato e sollecito, Edipo afferma di aver già mandato Creonte, fratello della regina, ad interrogare l’oracolo di Delfi sulle cause della devastante epidemia. Al suo ritorno Creonte, dapprima un po’ reticente, poi più loquace, spiega che è stato Apollo a mandare la pestilenza perché è rimasto impunito l’assassinio di Laio, il precedente re di Tebe. Il discorso di Creonte è cadenzato dai «gemiti» e dai «lamenti» di coloro che hanno contratto il morbo. A questo infausto coro si legano le suppliche elevate da chi auspica lo sradicamento della pestilenza la quale non solo ha colpito gli esseri umani, ma anche inquinato la gloriosa e rigogliosa terra di Tebe.

Tutto, dunque, è contaminato. L’anima e la carne. In questo lugubre e fosco scenario spicca il fatto che, in Edipo, non c’è innocenza. È vero. Ma c’è grandezza. Come Ulisse, egli ha l’indomito coraggio e la vibrante aspirazione a conoscere e, dunque, a sfidare l’ignoto, pur intuendo, in cuor suo, i rischi cui si espone. Edipo si configura così come l’eroe dell’intelligenza umana che assume su di sé la gravosa responsabilità di sondare i lati più oscuri, remoti e inconfessabili dell’animo umano. La grandezza tragica di Edipo si misura anche sul valore della sua coerenza. Non è certo un caso che decida di accecarsi: nel segno di un contrappasso dal sapore dantesco, l’eroe — suo malgrado eroe — priva per sempre i suoi occhi della luce, avendo essi visto troppo. Anche Tiresia è cieco, ma la sua cecità, a differenza di quella di Edipo, non è la conseguenza di una colpa: al contrario, è espressione, sorprendente e paradossale, di una lungimiranza che è fonte di conoscenza e di saggezza.

di Gabriele Nicolò