Realtà e finzione a partire dal romanzo «La fabbrica» di Joanne Ramos

Bimbi come pacchi in attesa del ritiro

web3-newborn-surrogacy-kiev-e1589201439847.jpg
16 maggio 2020

Le conseguenze del virus sul business dell’utero in affitto


Fra le foto tristi del triste periodo del coronavirus ce n’è una che viene dall’Ucraina. Mostra decine di culle, una accostata all’altra, e bambini appena nati avvolti in coperte colorate. Allo sguardo estraneo sembrano uguali, bambolotti prodotti in serie. Solo una mamma riconoscerebbe il suo. Ma mamme non ce ne sono. E neppure padri.

I bambini sono nati secondo le regole della maternità surrogata o dell’utero in affitto, che dir si voglia. In Ucraina Paese povero ce n’è un fiorente commercio. Una donna ucraina — racconta la foto — ha portato per nove mesi nella sua pancia quel fagottino e l’ha partorito per una coppia di estranei che aveva pagato. Solo che i compratori, causa coronavirus, non possono andare a prendere quel che è di loro proprietà mentre la pancia delle donne che li hanno partoriti era in affitto e l’affitto è scaduto. Così bambini sono rimasti soli in una stanza di un grande albergo di Kiev. Senza un genitore, senza carezze, senza ninna nanne, senza coccole. Il biberon — immaginiamo — glielo daranno. Li manterranno in vita perché sono merce preziosa. Ognuno di loro vale dai 30 mila ai 50 mila euro. Si tratta solo di far arrivare i clienti che devono prelevarli. La fabbrica ha sfornato buoni prodotti.

S’intitola La fabbrica il romanzo di Joanne Ramos edito da Ponte alle Grazie (Milano, 2020, pagine 412, euro 18). La fabbrica si trova a Golden Oaks, una bella residenza immersa nel verde, attrezzata e ben arredata, come una lussuosa beauty farm, sulle rive dell’Hudson. La gestisce una moderna manager di origine cinese che si dedica con abnegazione professionale alla produzione di bambini. Ospiti della casa sono donne povere, immigrate, filippine, asiatiche o afroamericane disponibili a sfornare figli per ricche, desiderose di un bambino, ma non disponibili a “sprecare” tempo e fatica per metterli al mondo.

Jane, la protagonista principale del romanzo, è una ragazza madre con molte difficoltà economiche. Ha vissuto in un dormitorio del Queens insieme a sua cugina Evelyn, che fa la tata per ricche famiglie americane e ha una figlia, Amelia. Perde il lavoro, il futuro è incerto e lei si affida alla cugina che la indirizza a Golden Oaks. 

Farne un altro, di bambino, e venderlo risolverebbe i problemi e garantirebbe un futuro a lei e alla bambina già nata.

Nella dimora di Golden Oaks tutto sembra semplice, ordinato, confortevole, opulento. Le ospiti sono accudite, il loro corpo è curato, la maternità monitorata, la psiche sorvegliata. La giornata prevede buoni pasti, ginnastica, meditazione, visite dei migliori medici. I cibi sono prelibati, i vestiti confortevoli e raffinati. Tutto deve svolgersi nel migliore dei modi perché il prodotto sia perfetto e i clienti siano soddisfatti. I nuovi nati devono essere belli, forti e robusti. Quando le madri surrogate li partoriranno, riceveranno uno stipendio e un bonus.

C’è un brutto lato della medaglia, un’altra parte della realtà che per quanto oscurata diventa sempre più pesante: le donne devono rimanere isolate, non possono ricevere visite, indossano un braccialetto che segnala tutto, spostamenti, battito cardiaco. Jane non può vedere per mesi sua figlia.

Moderna maternità o antica schiavitù? Semplice — e non è un gioco di parole — quella descritta in La fabbrica è una moderna schiavitù. Che si mostra come corpo femminile mercificato, privato di sentimenti e desideri ridotto a macchina che produce per vendere. Sono queste donne le nuove schiave.

Joanne Ramos ha scritto un bel romanzo ricco di tensione, di inquietudine, di domande, di suggestioni. L’autrice non giudica, racconta. I meccanismi del bisogno, l’illusione di farcela, la lusinga, l’illusione.

Avviene che le figure femminili diverse fra loro, per quanto costrette, non riescano a uniformarsi e ad accettare completamente quel che è stato deciso. Aspettative, desideri rimangono. E rimane in agguato la sorte che per quanto addomesticata è sempre in grado di intervenire. Sia le povere immigrate sia le ricche americane per quanto vittime (anche se in modo diverso lo sono anche le ricche americane che non riescono a liberarsi dai modelli estetici e dalle aspettative sociali della società del consumo) mantengono contraddizioni, immaginari, sentimenti, desideri. Così la libertà di produrre, di comperare e consumare senza limiti (il sogno americano) nelle pagine di Joanne Ramos, prima impercettibilmente poi sempre più chiaramente, si trasforma in un incubo.

La fabbrica è stato paragonato al Racconto dell’ancella di Margaret Atwood. E, in effetti, le similitudini ci sono. Protagoniste sono le donne, la mancanza di autodeterminazione e di libertà, il dominio maschile anche quando è gestito al femminile. Il desiderio di uscirne che, malgrado tutto, rimane. E soprattutto l’ambientazione distopica, la società in cui le donne sono schiave e totalmente dipendenti.

C’è, tuttavia, una differenza profonda. La società descritta da Atwood per quanto alluda a questioni reali non esiste. Quella di Joanne Ramos è attorno a noi. Cliniche, contratti, intermediari, madri surrogate, ricchi che comprano bambini oggi sono la realtà. La fabbrica lo descrive e la racconta. Come la terribile foto dei neonati di Kiev.

di Ritanna Armeni