L’arte della recensione in «Concupiscenza libraria»

Apripista in stile gotico

Hisashi Okawa, «Centuria» (pubblicata su Lectamanent)
26 maggio 2020

Chiusi a casa, Concupiscenza Libraria di Giorgio Manganelli, appena uscito per Adelphi (pagine 454, euro 24), è quello che ci vuole. Per molte ragioni. Innanzitutto è una lettura piacevolissima. Avendo frequentato di recente il suo stile verrebbe da aggiungere una lista di aggettivi per qualificarla, ma il recensore del recensore ha l’obbligo di non lasciarsi condizionare dallo stile del recensito. Concupiscenza libraria è infatti una raccolta di recensioni, sfuggite alla loro linearità cronologica e costrette in ambiti tematici per l’occasione dall’attenta e amorevole cura di Salvatore Silvano Nigro, senza che il danno sia grave. Manganelli matura presto uno stile fermo attraverso il quale rendere manifesta un’estetica precisa, una concezione letteraria convinta, che non conosce tentennamenti nel corso degli anni ma semmai conferme, modalità diverse di esprimersi. Nella visione manganelliana la recensione è gesto pienamente letterario e proprio questo rende i suoi articoli ricomponibili in una sequenza attraente, con qualche colpo di scena e l’attesa per il cosa succede adesso che caratterizza l’incontro con una scrittura coinvolgente.

Chi cerca con cura, trova persino la riflessione teologica, che nello stile dell’autore è ultimativa. «Il creatore, per non creare eternamente se stesso, deve creare qualcosa che sia imperfetto, e che contemporaneamente gli somigli, cioè sia tale da poter conoscere la propria imperfezione connaturata». Passaggio degno di un biblista accorto, che indirizza la contemplazione di più di un mistero e che, in modo discreto, dichiara la necessità della Redenzione. Il volume è massiccio, supera le quattrocento pagine di testo molto denso, e nella sua mole conferma un’impressione estetica altrimenti sfuggente. Non è scrittura barocca quella di Manganelli, anche se forse si compiace di sembrarlo. Il suo orizzonte è medievale e proprio la compiutezza architettonica tende a farcelo accostare più al gotico che al romanico. Prestando attenzione al testo riconosciamo con facilità le sequenze allitteranti dei fregi gotici e nelle parole inusuali scorgiamo i visi deformi che si affacciano ghignanti e sguaiati dai tralci della vegetazione scolpita nella pietra. Gotica è anche la pretesa, o sarebbe meglio dire la consapevolezza di una comprensione del mondo di necessità non frammentaria ma complessiva, olistica, dalla natura alchemica e nello stesso tempo sfuggente, perduta nel dualismo tutto o niente che non può che risolversi nel secondo termine. Questo elemento tragico, questa percezione del limite nascosta dietro un’apparenza di allegria quasi buffonesca, che non disdegna il riso, conferma il riconoscimento del gotico, nel suo splendore e nella sua asprezza duecenteschi, nella pretesa inattingibile ma sempre rinnovata di conoscere e descrivere compiutamente il mondo, nell’abilità di ricondurre qualsiasi esperienza letteraria a una misura, a un riconoscimento. Per lasciarsela subito sfuggire.

Infine, o soprattutto, c’è la capacità di incuriosire. Grande scrittore di viaggi, purché esotici e lontani, Manganelli ha il talento di invogliare alla lettura, di suscitare curiosità letterarie, di fare l’apripista in territori che consideriamo dimenticati solo perché l’industria editoriale non è stata determinata a mantenerne in vita la proposta. Cultore della lettura attento, così metodico da rifiutare ogni sistematizzazione affidata a una logica elementare, Manganelli riesce a far convivere nella sua interpretazione le avanguardie del Gruppo ’63, segnate dallo sperimentalismo e dal rifiuto stilistico, con la frequentazione di classici di ogni appartenenza e a nuovi autori di qualsiasi derivazione, purché saldamente legati all’evento della scrittura, considerato nella sua qualità magica, quasi automatismo, senza dimenticare il lungo apprendistato necessario allo stregone per divenire tale. Perciò, prigionieri domestici, monaci coatti, ci lasciamo consigliare. Anche di rileggere l’Iliade nella traduzione di Vincenzo Monti, per scoprire che «è senza dubbio qualcosa di straordinario, uno dei grandi libri della nostra letteratura».

di Sergio Valzania