A colloquio con il regista e attore Domenico Galasso

Alla scoperta dei nuovi John Fante

Dan Fante, Sandro Veronesi, Vinicio Capossela e Domenico Galasso sul palco del «John Fante Festival» nel 2012 (foto di Silvia Mazzotta)
27 maggio 2020

Ad Orazio Costa, che nutriva i suoi allievi con parole cariche di poesia («l’attore è un messaggero di Dio e nunzio a sé stesso e all’universo di un sé stesso migliore») è dedicato il Teatro che il patron Domenico Galasso, discepolo del grande pedagogo, ha voluto definire “Piccolo”. Crediamo più per rispetto al maestro che per le dimensioni contenute, tipiche dei Teatri Off. È nella sede del Piccolo Teatro Orazio Costa, a pochi passi dalla stazione di Pescara, che incontriamo l’attore-regista abruzzese.

Per diverse edizioni del Festival «Il Dio di mio padre», lei ha dato vita ai personaggi di John Fante attraverso reading delle sue pagine.

Ho recuperato, nelle occasioni che mi si sono presentate, una immagine suggerita dal mio insegnante di regia Andrea Camilleri, mutuata dal nostro comune maestro Orazio Costa. È una callida iunctura che ha dato anche il titolo ai miei successivi laboratori di lettura interpretativa. Richiamo alla memoria il suo romanzo La strada per Los Angeles, ma anche le lettere al suo mentore-idolo Henry Mencken. Parlo del respiro della scrittura. Ed effettivamente, nella sintassi di Fante (seppur tradotta) è chiaramente riconoscibile la qualità del dettato e dunque il ritmo del respiro. È stato immediato aderirvi, ritrovandone, appunto, il respiro. Non significa che quella di Fante sia una scrittura di getto, non è affatto così. La parola è sapientemente mediata e meditata, e in questo esiste senza dubbio l’indispensabile collaborazione della moglie Joyce Smart. Forse è una mia suggestione, ma in Full of Life, il personaggio racconta che la consorte Joyce (stesso nome) rivede quello che lui scrive.

Quando si ha tra le mani un testo, il rischio, la tentazione, è quella di imbastirci sopra discorsi: l’autore, il contesto, scordando che la letteratura è innanzitutto fatta di parole che chiedono la partecipazione del lettore, vita che richiede di essere vissuta. Una cosa a cui un attore-regista è particolarmente sensibile, soprattutto se è stato allievo di chi ha inventato il metodo mimesico.

Il riverberare degli esiti dell’esercizio mimesico, o mimico, fa sì che una lettura interpretativa possa godere di tutte quelle infinite variazioni e sfumature che si susseguono all’interno di un testo, fino al seguitare delle sillabe all’interno della parola stessa. È quel teatro della parola che si fa specchio della vita. In una delle edizioni del Festival ci fu un fuori programma da incorniciare: Dan Fante (figlio d’arte di John, scomparso nel 2015) leggeva le sue poesie in inglese, io le reinterpretavo in italiano. Nulla di preparato. A pensarla a tavolino non ci saremmo riusciti. Eravamo sul palco Vinicio Capossela al pianoforte, Sandro Veronesi, Dan e io. Ad un tratto Vinicio attraversa tutto il palco per bere un sorso di vino, passa dietro di me e mi dà una pacca sulle spalle. Comincia a suonare sul mio parlato. Tutto improvvisato. Fu una serata meravigliosa, “esito increduto” che si andava svolgendo davanti agli spettatori, totalmente avvinti dall’energia che si sprigionava sul palco. Più vita di così… È da annoverare tra i fatti memorabili. Ancor più adesso che Dan non c’è più. Avevo avuto un’ora prima la bellissima traduzione di Gabriella Montanari delle poesie di Dan (Gin & genio, pubblicate dalla WhiteFly Press di Torino). C’era tra Dan e me una simpatia senza riserve. L’affetto che mi ha donato era silenzioso, ci parlavamo guardandoci negli occhi. È un ricordo che mi tengo caro, insieme all’amicizia con Victoria, che dura tuttora. Ma non è tutto qui. La cosa prosegue ancora con Ayrin, la moglie di Dan e con Michelangelo, loro figlio. Nell’edizione del Festival successiva alla morte del padre, Michelangelo mi chiese di prestare la voce a un video in cui lui leggeva una poesia di Dan dedicata al genitore. Sono tutti legami che si consolidano nelle assenze.

La critica riconosce nello scrittore californiano uno stile tipico dell’America in cui è vissuto, ma i lettori italiani vi leggono tanta della loro storia. Fino a prima dell’emergenza sanitaria, Il Piccolo Teatro Orazio Costa aveva in programma dei reading di brani di Fante, tratti da «La strada per Los Angeles» e da «Full of Life». Quando li sentiremo?

La programmazione dei reading la renderemo nota sul nostro sito (www.piccoloteatrooraziocosta.it). Per quanto riguarda i testi, ricordiamo che La strada per Los Angeles — e non Aspetta primavera, Bandini, come si pensa — è il primo scritto in cui compare Arturo Bandini. La strada per Los Angeles parte sempre da Torricella Peligna, paese natale del padre di Fante. Esiste una circolarità di questa materia che, seppure trasfigurata in un’altra lingua, mette in evidenza le matrici, in fondo, di tutta la produzione di Fante. Mi riferisco al rapporto con i figli, alla devozione di questi verso di lui. È l’instaurazione, la dichiarazione di un legame familiare che è certamente mediterraneo, e permea tutti i suoi romanzi. Esiste, pur essendo lui uno scrittore immigrato di seconda generazione. E poi c’è la cifra losangelina. John Fante ha una doppia testa, come altri. Ce l’ha ad esempio Pietro Di Donato, l’autore di Cristo fra i muratori. In Fante ci sono da un lato le sue radici, inestirpabili, e dall’altro il suo essere naturalizzato americano, in continuo affanno nel tentativo di amalgamarsi con la cultura statunitense degli inizi del Novecento. È un suggerimento a noi oggi, che siamo seconda patria di nuovi immigrati. Siamo un territorio su cui si innestano le seconde generazioni straniere. Dobbiamo capire che ora è il tempo dei nuovi John Fante, che sono qui dall’Africa, dalla Siria, dal Pakistan. Lo viviamo noi ora.

di Francesco Marchitti