L’8 maggio 1880 moriva Gustave Flaubert

Alla ricerca della parola perfetta

Flaubert si scaglio contro Madame Bovary per avergli tolto la gloria
07 maggio 2020

A volte impiegava tre giorni per tornire una frase e per trovare la parola perfetta, sfrondando il testo di quei sinonimi sempre da lui sentiti come nemici perché incapaci di rendere nella loro pienezza il senso e il valore del termine scelto, le mot juste. Ancor prima che per i contenuti, Gustave Flaubert (morto l’8 maggio di 140 anni fa) rappresenta un imprescindibile punto di riferimento per la forma, non concepita nella dimensione esornativa, ma come esemplare espressione di una identità culturale, in cui convergono umanità ed etica.

«Il lettore — soleva dire lo scrittore francese — deve essere servito come in un ristorante di lusso. E il servizio reso non deve far dire niente di sé. È a partire dalla parola che comincia il rapporto tra autore e lettore; ed è la parola che, alla fine, suggella tale rapporto».

Il rispetto per la dignità del lettore non passa comunque solo attraverso la parola, e l’accurata scelta che si fa di essa, ma coinvolge anche il concetto della realtà. Pure in tal senso è dato di ravvisare una spiccata componente etica, perché Flaubert sviluppò ben presto una vibrante tensione alla rappresentazione obiettiva e cruda di ciò che circonda l’uomo della strada, riconoscendo nel realismo il privilegiato strumento per denunciare i mali della società. Strategia narrativa questa che lo elevò allo stato di iniziatore del naturalismo nella letteratura francese, in quanto convinto fautore di una prosa che bandendo orpelli e fronzoli arrivasse — la penna intesa come un bisturi — al cuore delle persone e delle cose. «Il linguaggio — scrive Flaubert — è simile a un tamburo rotto su cui battiamo melodie per farci ballare gli orsi, mentre ciò che desideriamo è fare musica che commuova le stelle».

La grandezza di Flaubert sta proprio nell’essere riuscito a imporsi come uno scrittore in grado di suscitare emozioni e di scuotere quel guazzabuglio di sentimenti che alberga nell’animo di ciascuno pur forgiando uno stile espressivo freddo e imparziale, non cedendo a vaporosi sentimentalismi o a fioriture retoriche. Del resto, chi non ha provato brividi o sussulti nel seguire l’evolversi del dramma di Madame Bovary, il suo massimo capolavoro? Eppure a creare un’atmosfera gravida di sentimento non è un linguaggio che attinge a un vocabolario traboccante di parole a effetto, ma è il rigoroso procedere di una prosa che sa magistralmente toccare le corde dell’animo e farle vibrare modulando la musica interiore che abita nei diversi personaggi del dramma. Significativo, al riguardo, è quanto affermò una volta Georges Simenon, che disse di riconoscere in Flaubert una grande affinità, proprio per la sua capacità di emozionare tanto più il suo linguaggio è severo e spoglio: valutazione, questa, che appunto si attaglia perfettamente al profilo del creatore del commissario Maigret.

L’incolmabile e crudele divario tra realtà e sogno, che porta Emma Bovary al suicidio (l’arsenico da lei ingoiato le procurerà una morte preceduta da una lenta e straziante agonia) è esaminato dallo scrittore con un distacco solo apparentemente impassibile. Il tormento della donna, le sue angosce, le sue pulsioni, acquistano infatti sulla pagina un pronunciato e tangibile rilievo, e il lettore non può non sentirsi partecipe di quella cupio dissolvi che investe la protagonista. Quando il romanzo fu pubblicato, suscitò le ire dei pubblici inquirenti del Secondo Impero, che si dissero scandalizzati per l’immoralità e l’oscenità di cui il testo era, a loro dire, infelice espressione. Flaubert fu messo sotto processo ma ne uscì assolto. Certo è che l’avvenimento, invece di lederne la figura, la promosse agli occhi del pubblico. Prova ne sia che la prima tiratura, 6750 copie, andò esaurita in meno di due mesi. Ma Flaubert, che era scampato ai rigori della legge, non seppe godersi pienamente il successo perché di esso si sentì defraudato dalla stessa Emma Bovary, diventata un vero e proprio mito presso i lettori. «Quella sgualdrina, che io ho creato, mi ha rubato la gloria» ebbe a dire un collerico Flaubert.

Non meno scandalo presso la critica benpensante e pudibonda suscitò un’altra grande opera L’educazione sentimentale, che s’inquadra nell’alveo del romanzo di formazione, architrave del processo culturale nell’Europa dell’Ottocento. Protagonista è Frederic Moreau, che si invaghisce della signora Arnoux, moglie di un editore. La passione, prima ardente, sarà destinata a spegnersi, e le ceneri di essa staranno a simboleggiare una vita a brandelli cui non hanno arriso né fortuna né successo. Frederic Moreau riconosce, con lucidità, questo fallimento ma, al contempo, sembra suggerire Flaubert, non è in grado di trarre da esso la giusta lezione, tanto che, confidandosi con l’amico Deslauriers, vagheggia l’eventualità che rifarebbe ciò che ha fatto, anche gli errori. A Flaubert fu rimproverato di «maltrattare» i suoi eroi e le sue eroine, calandoli in una realtà corrotta da brutture, falsità e sogni infranti. Solo così — replicava lo scrittore — è possibile trarre dai libri e dalla letteratura insegnamenti utili e duraturi per la vita». Solo di certa letteratura, però.

Scagliandosi di nuovo contro la sua Madame Bovary, Flaubert aggiungeva infatti una velenosa postilla, ricordando che a forza di leggere romanzi romantici che le avevano dato la misura del distacco tra realtà e sogno, Emma aveva finito per scavarsi da sola la fossa.

di Gabriele Nicolò