Schiavizzate, abusate da una guerra che non hanno scelto. Da vittime di violenze perpetrate dagli uomini a pilastro che regge la famiglia e guida la società al di là della guerra. Sono trascorsi oltre 9 anni dall’inizio del conflitto in Siria, che dal 15 marzo 2011 oltre a provocare un doloroso esodo verso i Paesi vicini vede soffrire in modo particolare le donne. A loro e alla drammatica situazione nella quale sono costrette a vivere, non solo in Medio oriente ma anche in altri Paesi del pianeta, la Caritas italiana ha dedicato il suo 55° dossier dal titolo: Donne che resistono. Non solo vittime della guerra, ma parti attive del Paese che verrà.
Lo studio è stato pubblicato proprio mentre in Italia e nel resto del mondo l’emergenza legata alla diffusione del covid-19 assorbe ogni nostra attenzione, per questa ragione l’ente caritativo esorta tutti a non abbassare lo sguardo verso altre tragedie non meno importanti e che durano da ancor più tempo. «Solo nel 1992 — si legge nel dossier — in seguito agli stupri di massa delle donne nell’ex Jugoslavia, la questione della violenza sessuale nei teatri di guerra è arrivata all’attenzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il 18 dicembre 1992, infatti, l’organismo dell’Onu ha dichiarato che la «detenzione e gli stupri organizzati e sistematici di donne, in particolare musulmane, in Bosnia ed Erzegovina, è un crimine internazionale che deve essere affrontato».
Le donne in Siria sono sempre più spesso mater familias, occupano posizioni e ruoli che prima erano prerogativa unicamente maschile; lavorano, combattono per la libertà, si impegnano nella difesa dei diritti. È dall’inizio del suo pontificato che Papa Francesco non smette di gridare, di levare la sua voce per la Siria. E sono molte le immagini che il Santo Padre ha dipinto agli occhi del mondo perché non distogliesse la testa e il cuore dal sanguinoso conflitto. Nel suo primo messaggio del 2020, ha ribadito la necessità di «ripartire dalla donna», perché senza di lei «non c’è salvezza». È l’obiettivo anche di questo dossier, animato dalla volontà di ripartire dal femminile, analizzando i tanti ruoli svolti dalle donne nel conflitto siriano: come, ad esempio, quello di pilastro familiare e di guida della società al di là della guerra.
Dall’inizio della crisi siriana Caritas italiana è attiva, in coordinamento con la rete Caritas internazionale, in interventi a sostegno della popolazione locale e dei profughi in tutti i Paesi che li ospitano del Medio oriente e lungo la rotta balcanica, in particolare: Siria, Libano, Giordania, Turchia, Grecia, Cipro, Repubblica di Macedonia del Nord, Serbia, Bosnia ed Erzegovina. Dal 2011 a oggi, l’ente caritativo ha avviato 68 progetti con un investimento complessivo di oltre 7,2 milioni di euro, provenienti da donazioni e dall’8xmille alla Chiesa cattolica.
Dallo scorso dicembre, si è aperta la fase drammatica nella regione di Idlib, nord-ovest della Siria. Due dati su tutti dimostrano l’ulteriore tragedia che si sta consumando proprio in questi giorni: 960.000 nuovi sfollati, di cui l’80 per cento donne e bambini, e almeno 4000 morti accertati a causa del conflitto.
Come evidenzia il dossier, le donne molto spesso sono vittime di una guerra che non hanno scelto, poiché sono sempre gli uomini a desiderarla, alimentarla, pianificarla. Combattenti con il kalashnikov in spalla, fra la polvere delle trincee o attiviste «armate di parole» per difendere gli ideali e i diritti del loro popolo. Donne alla guida di famiglie che al tempo stesso occupano quei vuoti sociali e lavorativi lasciati dagli uomini. Andati a combattere.
Le donne sono anche l’obiettivo scelto delle più disparate forme di violenza sessuale, che costituisce una vera e propria tattica di guerra. Gli stupri commessi nel corso dei conflitti hanno lo scopo di terrorizzare la popolazione, distruggere i legami tra famiglie e comunità, cambiare la composizione etnica delle future generazioni: lasciando che le donne portino dentro di sé l’indelebile marchio del nemico. Lo stupro è uno strumento di intimidazione politica, usato contro attiviste che lottano per un mondo più giusto, in difesa dei diritti umani; ma è diretto anche contro le madri, mogli, sorelle di oppositori a regimi politici, impiegato dal sistema per annientare ogni forma di dissenso. I numeri che raccontano l’orrore degli stupri delle guerre scoppiate negli ultimi trent’anni sono raccapriccianti. In Rwanda, tra le 100.000 e le 250.000 donne sono state stuprate durante i primi tre mesi del genocidio del 1994. Le agenzie delle Nazioni Unite stimano che oltre 60.000 donne hanno subito violenza durante la guerra civile in Sierra Leone (1991-2002), oltre 40.000 in Liberia (1989-2003) e almeno 200.000 nella Repubblica Democratica del Congo dal 1998.
Cosa occorre fare, dunque, per proteggerle specialmente nelle situazioni di guerra e al tempo stesso renderle parte attiva della società, grazie al loro prezioso contributo ai processi di pace? Secondo il dossier Caritas bisogna garantire che la voce delle donne e la loro effettiva partecipazione ai processi di ricostruzione della pace siano assicurate; occorre prevenire qualsiasi forma di violenza contro le donne nelle zone di conflitto; promuovere l’educazione, lo sviluppo economico e sociale; infine garantire la permanenza di un sistema in grado di punire i colpevoli di violenze e discriminazioni.
Nella gran parte degli interventi umanitari promossi da Caritas italiana, l’attenzione di genere è presente in modo trasversale soprattutto per le donne capofamiglia, considerate tra i destinatari prioritari degli aiuti. In Libano, per esempio, da anni è in corso un progetto di case protette per donne rifugiate, prevalentemente siriane, nonché per le vittime della tratta. La Chiesa in Siria e negli altri Paesi del Medio oriente è impegnata non solo nell’assistenza umanitaria ma anche nel mantenere vive le attività pastorali e spirituali, di cui il bisogno è sempre maggiore, proprio a causa delle difficoltà enormi che vivono le comunità, in particolare quella cristiana.
di Francesco Ricupero