Ufficio oggetti smarriti - Il passato imprevedibile

Vite dromedarie e i limiti del night

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17 aprile 2020

«E sembra un sabato qualunque, un sabato italiano, il peggio sembra essere passato». Ero un ragazzino e Sergio Caputo mi aspettava proprio di sabato pomeriggio, a casa di un amico del liceo. Sul piatto del giradischi girava Un sabato italiano ed io ebbi la netta sensazione di essere osservato. Di essermi imbattuto in un amico, quasi un sodale segreto, che mi avrebbe fatto sentire meno solo da lì in avanti. Di quanti altri autori possiamo dire lo stesso? Chiariamo subito, l’autore romano non è un oggetto smarrito, semplicemente è un piccolo gioiello che viene da un passato, quello della mia generazione, alla quale ha saputo parlare senza promettere e senza disperarla. Ma torniamo a quel sabato del quale Sergio sembrava conoscere i segreti, quel giorno della settimana che quasi tutti attendono a patto di avere una vita, una famiglia, un amore, qualcuno da vedere. E se, magari momentaneamente, tu ne fossi sprovvisto? Se anche tu sentissi sulla pelle tutta l’insidia del sabato, il giorno nel quale la felicità attorno a te esplode e tu resti lì come un sordo a un concerto, a sperare che tutto finisca presto? Finché alla fine, poco prima di sera, t’imbatti in quel punto del sabato nel quale, misteriosamente, la tua ansia si scioglie e l’istinto a vivere e ad uscire ti spinge nuovamente fuori. «Il peggio sembra essere passato». Caputo sapeva. Come si conoscono le cose che tu provi? Avendole vissute. Questo era uno dei nodi più resistenti del lenzuolo che legava Caputo ai suoi fan, avere sempre l’impressione che quel che ci spaventava avesse spaventato anche lui, che gli sgangherati rimedi a quella paura li avesse posti in essere anche lui e che alla fine, tutto sommato, altro non c’era da fare che riderci sopra. Viene in mente Jerry Lewis quando diceva «La felicità non esiste, non ci resta che essere felici senza di lei», questo è quanto (a modesto avviso di chi scrive) ti sussurravano le canzoni di Sergio. La vita vale di più di quella che tu chiami “felicità”. Viene da chiamarlo per nome, anche se non gli ho mai rivolto la parola in vita mia (il mondo è pieno di gente che conosce i propri idoli, questa è una delle catastrofi di internet al tempo dei social) per tutte le volte che con un verso di una sua canzone, ha scattato una polaroid della nostra vita. Un pizzico di verità, un pizzico di surreale, ecco la sua ricetta formidabile nel restituire il vivere attraverso i suoi personaggi. Ricorre spesso il viveur de noantri che tutti prima o poi siamo stati, sempre il bilico fra sinuose atmosfere chandleriane/simenoniane e la tragica somiglianza con un Fantozzi della notte, sono i limiti del Night bellezza... «È così che mi ritrovo a divagare su chimere e aspirazioni da viveur nell’intrigo della notte in quest’oasi di lamé a prescindere dai fatti penso a te. Parla più forte ti telefono da un night ho i nervi un po’ in disordine e il fegato nei guai. Tiro a stupirti ma non mi riesce più a barare son più abile anche quando vinci tu. Nel brivido del night nell’ottica del night ognuno ha un segreto nel cuore da non rivelare mai. Nei limiti del night nell’etica del night si diventa didascalici ma tu non lo sai» (tratto da Night) La trasgressione che rende didascalici è il più atroce e al contempo ridicolo dei contrappassi e ce lo spiega Sergio Caputo. E così, da aspiranti viveur ci ritroviamo fantini di dromedari a preoccuparci di esistere, con una vita ormai scandita da cose che ci sfuggono di mano e gli ultimi, quasi eroici, tentativi di mentire a noi stessi «… e la vita dromedaria se ne va nel deserto della quotidianità. Noi la seguiamo incompetenti eludendo i cambiamenti sopraggiunti con l’andare dell’età. Ahimè, tempi duri per noi, Gagà» (tratto da Vita Dromedaria). La vera difficoltà dei tempi è sfuggire allo specchio nascosto nei nostri bagagli, abbiamo il coraggio di scoprire chi siamo davvero? «Effetti personali, non metterci le mano, potresti forse avere delle brutte sorprese» (tratto da Effetti personali). Nel frattempo ci si prova, con l’amore intendo dire, ma i risultati sono sempre gli stessi, il nostro arrivo da improbabili (coi mostri nell’armadio e un killer nella radio) dandoci un tono impegnato e aggrapparci al nonsense per farla ridere quando non ne siamo più capaci: «Reduce da un party missilistico, preda delle arpie psicosomatiche Sfuggito per miracolo a un blitz dei tabaccai, Alfredo un martini dry… Dietro la finestra di un hotel, io con i mostri nell’armadio e un killer nella radio che mi tramortiva con la dance… Io e te braccati dall’effimero, noi due traditi dal cronometro Mi scusi che ora sarà a New York? Chiami la sip why not?» (tratto da Amore all’estero). E allora se il destino ti strappa le carte di mano e ride all’idea del tuo bluff, non resta che trasformare la solitudine in speranza grazie a una forma di distrazione sempre più professionale: «T’ho incontrata domani, o perlomeno mi è sembrato fossi tu, c’era troppa fuliggine ora non ricordo più». L’idea di aver giù vissuto ciò che il futuro promette e — per non restarci male — fingere di non ricordare più quel che ci attende è l’ultimo coniglio dal cilindro. Sergio Caputo ci rivela un segreto: funziona. L’arte di sperare in fondo, nasce da un calcolo che, finalmente, non torna.

di Cristiano Governa