La Passione di Cristo in «Sete», ultimo romanzo di Amélie Nothomb

Una visione salvifica troppo umana

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08 aprile 2020

Quando si gira l’ultima pagina di Sete (Roma, Voland, 2020, pagine 128, euro 16) l’ultimo, spregiudicato romanzo di Amélie Nothomb (spregiudicato in senso positivo: riscrivere la Passione di Cristo dal punto di vista del Protagonista, nella Francia Anno Domini 2020, è indubbiamente una scelta controcorrente e coraggiosa), ebbene, al termine si prova la stessa sensazione di quando si assiste alla partita della propria squadra del cuore che fa sì un bel match, domina i 90 minuti, non fa quasi toccare palla agli avversari, ma spreca troppe occasioni e agguanta alla fine un pareggio che sa proprio di non vittoria. Per poi scoprire che, comunque, quel pareggio ha fatto vincere ai nostri il campionato.

La più recente prova narrativa di Nothomb è proprio questa: un bellissimo tentativo che però rischia di mancare il bersaglio definitivo. Perché un pareggio? Perché si evidenziano due aspetti positivi del romanzo breve, che fa della sua concisione e della cura artistica di un linguaggio incandescente e profondamente autentico la sua forza; mentre sono altrettanti gli aspetti problematici, o negativi che dir si voglia, nello scorrere della narrazione.

Iniziamo da questi ultimi. Qui e là Nothomb si manifesta erede della sindrome Codice da Vinci, l’insulsa visione che vede Gesù Cristo innamorato e amante di Maria Maddalena — dato che lo studio storico-critico dei Vangeli ha da sempre smentito. Eppure il fiume carsico made in Dan Brown sembra essere penetrato nella scrittura di Nothomb, la quale si lascia ammaliare da questa diceria, come se una punta di sentimentalismo e di rosa nella vicenda del Nazareno possa far risultare più umanamente attraente la personalità di Cristo. Secondo aspetto non positivo del romanzo, ben tradotto da Isabella Mattazzi: forse memore indiretta di una visione razionalista del cristianesimo — la teologia de I misteri di Parigi di Eugène Sue ne è un’esemplificazione concreta —, Nothomb fa trasparire una visione salvifica arretrata e troppo umana. Quella secondo la quale la morte del Figlio è stata esigita da un Padre assetato di riparazione e di vendetta rispetto al male del mondo. Probabilmente una visione funzionale all’impianto narrativo di Nothomb, che è incentrato sul Figlio e di questo vuole far esplodere pensieri e coscienza. Del resto all’artista non si può chiedere l’ortodossia. Ricordo un dibattito all’Ecole Normale di Parigi con Eric-Emmanuel Schmitt, l’autore dell’avvincente Il Vangelo secondo Pilato (San Paolo): a uno studente che gli contestava la rischiosa ortodossia teologica del suo romanzo, Schmitt, dopo aver provato ad argomentare che l’arte non è teologia, che la costruzione letteraria non è sinonimo di dogma, se ne uscì con un irritato: «Allora si scriva lei il suo romanzo!».

Fin qui i problemi. Veniamo agli squarci di illuminazione che Nothomb, grazie anche alla capacità artistica da scrittrice di razza qual è nell’immedesimarsi dentro la vicenda che va raccontando, ci offre come contributo singolare e attraente. In questo, facendoci rivivere quell’esperienza che Carlo Maria Martini, sulla scia della tradizione ignaziana, indicava a quanti partecipavano agli esercizi spirituali da lui guidati o lo ascoltavano, maestro indimenticato, negli incontri di Scuola della parola: immedesimarsi nell’episodio biblico, diventare uno dei personaggi, far parlare l’evento come se fossimo presenti.

E così Nothomb — inconsapevolmente, probabilmente, allieva di Ignazio — ci regala una prospettiva inusitata nell’affrontare la vicenda di Gesù. Infatti ci fa scorrere davanti agli occhi, immaginari testimoni nel processo intentato da Pilato, alcuni personaggi che ebbero a che fare con il Maestro: Lazzaro, la coppia di Cana, e altri. Tutti a testimoniare lì che loro, sì, erano stati beneficiati da quel rabbi di Nazareth, ma poi la loro vita aveva avuto parecchi problemi proprio a causa del favore loro accordato da Gesù. Questa immedesimazione e ricostruzione letteraria di Nothomb è davvero suggestiva, feconda e brillante: una sensibilità che può dire molto a tanta teologia di casa cattolica, spesso irregimentata in una costruzione asettica e formale, in cui pare non esserci spazio per il pathos che la vicenda viva dei Vangeli ci infonde.

E infine. Il colpo di genio di Nothomb in questa narrazione è la riespressione del mistero dell’incarnazione di Dio. Quel titolo, quell’assorbimento dell’umanità nel mistero della sete — una dimensione che attraversa il testo biblico dall’inizio alla fine, metafora dell’anelito intrinseco dell’uomo verso l’Assoluto —, quella centralità di questo bisogno del Figlio sofferente ci ridanno il gusto, da vertigine, del mistero che il cristianesimo ha introdotto nel mondo: l’esperienza del divino che si fa carne. E che quindi prova “sete”. Sete dell’altro, sete dell’Altro. Tanto che l’ultimo pensiero del Cristo nothombiano ci lascia senza parole: «Per provare la sete, occorre essere vivi. Io ho vissuto così intensamente da morire assetato. Forse è proprio questa la vita eterna».

Che una scrittrice di oggi ci lasci in mano, al termine del suo romanzo, questa parola così fuori moda, così sovversiva e irriverente rispetto all’appiattimento anti-escatologico del nostro tempo come “vita eterna”, può infine far pendere la bilancia del giudizio verso la vittoria a punti di questo romanzo. Il quale, seppur in alcune increspature, ci consegna pagine potenti e irrequiete, che ci fanno toccare con mano come la provocazione di Cristo ai suoi — «Chi dice la gente che io sia?» — resta profezia, attualità e futuro della condizione umana.

di Lorenzo Fazzini