A colloquio con il fondatore della Star Florence Design School di Firenze

Tutto è nato per rispondere ad Ana Elisa

Una lezione «en plein air» a piazzale Michelangelo
27 aprile 2020

Il metodo dell’insegnamento “a bottega”, come nel medioevo e nel rinascimento, mostra ancora tutta la sua potenzialità. Studiare direttamente sul luogo di lavoro si può, spiega l’architetto Giovanni Voto, che ha fondato una scuola di architettura e progettazione d’interni con base a Firenze e allievi che vengono da tutto il mondo, la Star Florence Design School.

«Beauty to challenge the world» si legge nel sito del suo studio studiumarchitecturae.com. Come è nata l’idea della scuola e qual è il suo orizzonte?

Beh, nell’estate del 2014 c’è stato un fatto che ha cambiato la mia vita. In studio ricevevamo fino all’anno precedente studenti provenienti da tutto il mondo per stage gratuiti (avevo insegnato in università e il sito dello studio era in inglese, a seguito di lavori fatti all’estero). Quell’anno però a causa della crisi economica che aveva segnato drammaticamente anche il nostro lavoro capii che non potevo più permettermi di insegnare gratis. A una studentessa brasiliana che insisteva molto per imparare l’architettura in un luogo di lavoro dissi che mio malgrado questo era possibile solo tramite un compenso. Del resto già allora non si trattava solo di fare uno stage ma di partecipare a una esperienza operativa su progetti veri con un coinvolgimento totale nell’arena del dibattito internazionale. Con mia grande sorpresa lei accettò. Ma la cosa che mi aprì, inaspettatamente, un grande interrogativo su questo tentativo d’insegnamento acerbo fu quello che accadde dopo.

Che cosa è successo?

La costante che tesse e sviluppa la mia ricerca e il mio metodo di lavoro è la percezione della Bellezza come fenomeno pre-esistente, alla radice del reale. In sintesi la possibilità di contemplazione di un nucleo dell’essere. Ovviamente oggi la parola “bellezza” è usata in modo molto ambiguo e dunque va sempre sfrondata da ogni “esteticismo” latente. L’arte (e l’architettura e il disegno d’interni sono una forma d’arte) è forse, insieme alla filosofia, un tentativo di ricerca innato dell’oltre, del mistero dell’essere. Anche Bill Viola, ad esempio, conviene su questo punto. Ora, io sono cristiano, anche se non va più molto di moda, per il semplice fatto che ho fatto esperienza concreta, reale che «la realtà, invece, è Cristo» come dice Paolo ai Colossesi e questo indica che nell’osservare in profondità qualsiasi disciplina finiamo su un’origine delle cose intorno a noi che inevitabilmente parla di questo soggetto vivente. Un Tu misterioso il cui fascino è indescrivibile.

Vengono in mente le parole di un inno attribuito a Bernardo di Chiaravalle, «nec lingua valet dicere nec littera exprimere, expertus potest credere quid sit Jesum diligere»; solo chi ne ha fatto esperienza può comunicare anche agli altri quanto concreto sia questo «Tu» misterioso.

Tutto questo si trasmise, direi quasi involontariamente, in modo vitale ad Ana Elisa (la studentessa brasiliana di cui ho parlato prima) mentre progettavamo l’edicola per l’arcangelo Michele TaxiArchis (una cappellina progettata su un promontorio che guarda su Vieste. Il committente, in un certo senso, è stato lo stesso arcangelo Michele. Ma questa è un’altra storia). Ana Elisa percepì tutta la bellezza e la realtà del cristianesimo in modo repentino, durante un pranzo. Una conversione non tanto al rito religioso, che lei peraltro già conosceva, ma come via di accesso a una nuova vita “inaudita”, tutta da scoprire, che viveva in contemporanea mentre studiava, discuteva e mangiava nel nostro studio. Ancora oggi ci sentiamo, e, pur tra alti e bassi, è una ragazza entusiasta.

Davvero una persona sola è bastata a far nascere una scuola?

Ogni studente è in qualche modo tutto l’universo, tutto un universo. L’unicità e l’irripetibilità dello studente è certamente una delle cose che più mi “sovverte” ed educa. Oltre ai miei maestri che seguo, e a cui sono legato da rapporti di amicizia come Alberto Campo Baeza, padre Bernardo, abate di San Miniato e altri con cui abbiamo dialogato molto, o anche a distanza come Paolo Zermani, John Pawson, Mario Botta. E comunque, sì, è bastata una studentessa. Ma in realtà ci sono stati anche altri fattori. In seguito proprio quell’estate alcuni ragazzi morirono di droga in discoteca a Riccione, uccisi dalle nuove pastiglie sintetiche. Questo fatto fece molto scalpore sui giornali; io avvertivo che nessuna morale o moralismo sui loro errori avrebbe cambiato il loro destino e le loro scelte. Quei ragazzi si muovevano semplicemente (e disperatamente) alla ricerca di qualcosa di eccezionale, di potentemente vivo in un panorama dominante segnato dal nulla. Il nichilismo atmosferico che respiriamo normalmente. L’educazione è una conversione del desiderio all’assoluto. Non si tratta di impedire qualcosa ma di spingere l’acceleratore al massimo. Orientare la dinamica del desiderio verso il suo vero obbiettivo. Cristo infatti è la Bellezza Totale, assoluta. Ciò che introduce all’alterità cosmica che pure pervade il quotidiano. Non esiste nulla di così affascinate come Cristo stesso nel suo corpo vivente. Quindi forse una scuola avrebbe potuto aiutarli a trovare una strada.

Come entra questo nella vita della scuola? E come influisce in concreto, nel metodo di insegnamento?

Dionigi l’Areopagita dice che il terreno primordiale delle cose è anche la loro destinazione. Ora i ragazzi nella loro creatività subiscono già in giovane età una visione che li rende schiavi: il problema di essere originali. In realtà più che essere originali si tratta di essere “originari”. Cioè scoprire l’origine di sé e del reale. Questa scoperta è un atto avventuroso, direi pionieristico. I ragazzi vengono invitati come esploratori a scoprire l’origine di se stessi e della realtà diventando degli argonauti a bordo della scuola dove, attraverso le lezioni e i laboratori su lavori reali, devono solcare il mare dei problemi concreti innanzitutto funzionali (occorre molto concretamente ricordare loro che l’architettura, anche quella di interni, è un’arte squisitamente funzionale) fino a coglierne la funzione ultima dell’uomo che è la dimensione poetica e ascetica. Cristo è scoperto come la vita vivente all’interno del loro percorso che prevede liberamente anche momenti di silenzio e contemplazione in luoghi dalla bellezza eccezionale oltre che a cene, visite, ascolti musicali e visioni cinematografiche consigliate. Il tutto in una lettura anche critica di ciò accade nel presente. Abbiamo interessanti paralleli su questo anche nella Scuola d’Arte sacra di Firenze portata avanti da Giorgio Fozzati con cui abbiamo sviluppato una forte amicizia e condividiamo problemi e idee. Loro si occupano soprattutto di pittura, scultura e artigianato religioso.

Come cambia (se cambia) il metodo di insegnamento quando i ragazzi arrivano da culture molto diverse fra loro?

Certo, la scuola è in lingua inglese e i ragazzi vengono da tutto il mondo — come si vede dalle recensioni online — e inoltre la metà dei docenti non è italiana. Ma più che internazionale mi piacerebbe dire universale. Cioè vorrei che emergesse il complesso di tutte le cose attraverso un metodo che ri-parte dall’esperienza elementare del fare nei laboratori. Questo fare è continuamente suffragato da osservazione e ascolto, e seguito da grande attività critica, incontri e testimonianze che permetta di metabolizzare il contenuto dell’azione, di farlo proprio. La classe non ha più di otto persone (e ora con il covid-19 probabilmente non più di sei) per mantenere il rapporto tra docente e studente rigorosamente alto. I luoghi di apprendimento sono diversi studi d’architettura, di light design e di interni e design internazionali sparsi su Firenze per cui i ragazzi sono inseriti in luoghi dove circolano e lavorano ricercatori e professionisti che operano in tutto il mondo. L’idea di fondo è tornare alle botteghe di Giotto, Brunelleschi, Donatello, Michelangelo, dove la dimensione intellettuale non era meramente artigianale ma osava di più. Qualcosa di simile nel Novecento accade con il Bauhaus a Dessau. Però il nostro approccio parte più dall’idea che la bellezza è profondamente legata al bene. Per questo abbiamo iniziato un dialogo con la realtà davvero affascinante di Cometa — un’opera iniziata da Erasmo Figini — che educa ragazzi disagiati a studiare e trovare una strada stabile anche attraverso il lavoro. Lo studio e il lavoro come percorso per riscoprire sé stessi davanti a Dio. Abbiamo una visione del metodo che è al contempo storica (esistono molti esempi incredibili nella nostra storia) e totalmente avanguardista.

Si parla tanto di fare innovazione, ma è una parola che va così tanto di moda nel mondo imprenditoriale da suonare spesso vuota, impersonale come uno slogan. Che cosa significa innovazione per voi?

L’innovazione è qualcosa che accade innanzitutto dentro l’Io. È l’autocoscienza che si innova. Quando si parla di innovazione si pensa sempre alla tecnologia oppure al digitale, con un vago sentimento di futuro e di speranza; è un’illusione ovviamente. Noi crediamo fortemente nel digitale perché siamo inevitabilmente nella sua era, ma è solo un interessantissimo strumento che richiede un’implementata vigilanza e consapevolezza del suo uso. Può essere straordinariamente utile come stiamo vedendo nella pandemia, ma anche estremamente pericoloso nella sua meccanicità, come è visibile dalla quantità di sollecitazioni on line che ci appiattiscono nella conoscenza del fatto. Lo stesso vale per i robot che sempre più prendono piede nella produzione. Il punto è che oggi l’umano ha una maggiore necessità di sviluppare l’esigenza di distinguere il bene e il male, anche nei processi. L’accelerazione delle informazioni ad esempio non permette di capire davvero che cosa è reale e che cosa è pura percezione sensoriale. L’innovazione reale, invece, è la riscoperta nell’autocoscienza di una delle tre dimensioni fondamentali dell’io, cioè la speranza, che insieme alla fede e all’amore cambiano di fatto l’unica e sola cosa che può essere davvero nuova: l’uomo. Il resto è conseguenza.

Quali sono i temi di progetto su cui lavorate di più?

Soprattutto ristrutturazione e arredo di interni, spazi sacri, scuole, case, luoghi di lavoro. L’insistenza sulle ristrutturazioni e i riadattamenti c’è perché nella condizione storica attuale non c’è più molto da ricostruire rispetto alla crescita demografica, ma soprattutto da ri-adattare e ripensare. Uno dei temi di ricerca e progettazione attualmente più rilevanti, ad esempio, è come riusare in modo consono e dignitoso vecchi e spesso straordinari spazi di ambiti religiosi ormai privi di uso. È un tema molto importante il corretto riuso del nostro patrimonio artistico, e lo resterà almeno per i prossimi quarant’anni. Occorre dare risposte concrete che siano sostenibili economicamente e soprattutto umanamente nel rispetto della loro natura storica. Comunque non disdegniamo affatto le nuove costruzioni, abbiamo progettato anche piazze e complessi parrocchiali ex novo.

di Silvia Guidi