Il cinema di genere italiano del 1970

Tris d'assi

«Lo chiamavano Trinità» (1970)
17 aprile 2020

Mezzo secolo fa, il cinema di genere italiano viveva una delle sue stagioni di maggior rigoglio, facendo inevitabilmente leva anche sulla crisi profonda di Hollywood. Al pubblico si offrivano senza troppe remore emozioni forti, attraverso generi — il western, il poliziesco, il thriller — che in qualche modo intercettavano e sublimavano il malessere e i traumi della nazione in un’epoca di violenza e sconvolgimenti sociali.

Quando Dario Argento arriva a realizzare la sua opera prima, nel 1970, il giallo cinematografico italiano esiste ormai da una decina d’anni. Già nel 1960 c’erano stati Il rossetto (Damiano Damiani) e Quel maledetto imbroglio (Pietro Germi). Più tardi, ci saranno altri discreti tentativi da parte di esperti del cinema di genere, fra cui Antonio Margheriti, Riccardo Freda, Umberto Lenzi. Ma a ispirare Argento sono soprattutto i due seminali gialli di Mario Bava: La ragazza che sapeva troppo (1963) e Sei donne per l’assassino (1964). Entrambi splendidi visivamente — il primo in un bianco e nero cupo e contrastato, il secondo in colori saturi — sono film che sicuramente si lasciano ammirare soprattutto per le loro qualità formali, frutto della pregressa esperienza del regista come direttore della fotografia nonché come pittore.

Bava non credeva troppo al giallo, e proprio nell’anno dell’esordio del più giovane collega arriverà non a caso a spingere il genere fino ai confini di una geniale parodia, dai toni quasi metafisici e sul crinale del surrealismo, con Cinque bambole per la luna d’agosto.

Alcuni elementi narrativi ed estetici di quei primi due film, tuttavia, faranno breccia nell’immaginario argentiano. Da La ragazza che sapeva troppo, il regista romano prenderà l’idea di una mefistofelica figura femminile al centro dell’intrigo — retaggio anche del genere gotico, di cui sempre Bava era stato maestro — ma soprattutto l’idea di sfruttare il paesaggio cittadino nei suoi aspetti più arcani e suggestivi, tanto da farlo diventare un vero e proprio protagonista del racconto. Mentre la scelta di un investigatore non professionista che si ritrova al centro di un intrigo per caso, viene sì dal film di Bava, ma ancora prima dal cinema hitchcockiano di cui quest’ultimo porta chiari segni nel titolo.

Da Sei donne per l’assassino, invece, Argento mutuerà parte della trama, ma soprattutto quello che diventerà uno dei marchi di fabbrica dei suoi gialli, ovvero l’iconografia dell’assassino con impermeabile e mani guantate di nero, dettaglio da valorizzare con febbrili soggettive. Più in generale, è questa tendenza alla modalità del thriller, dunque alla suspense legata ad azioni criminose particolarmente efferate, che interessa ad Argento. Caratteristica che affrancherà sempre di più il genere cinematografico italiano dalle sue radici letterarie anglosassoni, con una rappresentazione della violenza che spesso sarà tanto esplicita quanto stilizzata.

Con L’uccello dalle piume di cristallo, Argento porta dunque a piena maturazione tutti questi elementi, dimostrando da subito una consapevolezza nei propri mezzi, soprattutto tecnici, davvero rara per un esordiente. Le scene madri sono orchestrate con grande perizia, e con un’eleganza che ne rende sopportabile il contenuto violento fino a sublimarlo in puro gesto estetico. Lo scenario è offerto da una Roma in buona parte inedita e trasfigurata. Una scelta che rende evidente come nel giallo-thriller italiano non vi sia una grande attenzione — per lo meno diretta, semmai inconscia — per la realtà nazionale del tempo.

L’atmosfera nervosa dell’epoca trapela nitidamente, ma tutto è sottoposto al filtro del gioco metacinematografico, finalizzato a servirsi di un genere ormai vecchio e sostanzialmente saturo di situazioni narrative per farne un laboratorio di cinema puro — di nuovo in ossequio delle teorizzazioni di Sir Alfred — in cui le immagini in sé contano più del racconto e i singoli momenti più dell’insieme.

Argento diventerà in poco tempo il maestro riconosciuto del genere, e i suoi titoli andranno a eclissare omologhi di livello non inferiore firmati da altri autori, i quali non dimostreranno però la stessa fedeltà a questo tipo di film. La corta notte delle bambole di vetro (Aldo Lado, 1971), Una farfalla con le ali insanguinate (Duccio Tessari, 1971), Giornata nera per l’ariete (Luigi Bazzoni, 1971), sono solo alcuni di quei prodotti che, pur nascendo come epigoni della matrice argentiana, non sfigurano nel confronto con il modello.

Altro genere che avrà grande successo nel decennio che si va ad aprire, sarà il cosiddetto “poliziottesco”, ovvero il poliziesco all’italiana, che spesso tenderà al noir, a seconda che l’accento della trama venga posto sulle forze dell’ordine o sui criminali. Come già accaduto oltreoceano, il poliziesco sarà depositario del lascito di alcune fra le dinamiche narrative più semplici del morente western, a partire ovviamente dalla contrapposizione fra chi difende la legge e chi la trasgredisce. Ma il poliziottesco arriverà a maturazione anche sulla scia del cinema d’impegno civile di Francesco Rosi e di Damiano Damiani, di cui costituirà una semplificazione. Il capostipite ufficialmente riconosciuto del genere, sarà La polizia ringrazia (Steno, 1972), ma nel 1970 ci sono già un paio di riconoscibili prodromi. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri) accorcia la distanza fra cinema d’impegno e prodotto commerciale, con una trama paradossale che vale tanto quanto metafora sul potere e sulle tentazioni di autoritarismo dell’epoca, quanto come semplice fonte d’intrattenimento. Inoltre la regia di Petri è già quella veloce e senza fronzoli del genere che sta nascendo. Ancora più vicino all’atmosfera e allo stile del poliziottesco, è La morte risale a ieri sera (Duccio Tessari), tratto da un racconto di Scerbanenco, autore che non a caso verrà preso in considerazione più volte dal nuovo genere.

A fare del film di Tessari un capostipite non riconosciuto, è soprattutto la descrizione credibile del milieu criminale milanese, gli accenni superficiali ma efficaci alle dinamiche sociali che lo sottendono, una detection delineata con precisione, e ovviamente l’uso, anche qui, dello scenario cittadino, che diventa paradossalmente spettacolare proprio nei suoi aspetti più desolati e squallidi. Con un protagonista che deciderà di vendicarsi in prima persona dell’uccisione della figlia, inoltre, il film anticipa Un borghese piccolo piccolo (Mario Monicelli, 1977) e più in generale l’inquietante tema della giustizia privata che imperverserà qualche anno più tardi sugli schermi italiani e americani.

Alla fine del 1970 arriverà invece uno dei più grandi successi di pubblico della storia del cinema italiano, Lo chiamavano Trinità (E.B. Clucher), pellicola che inaugura il filone leggero del western all’italiana. A partire da Per un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964), il genere aveva sfornato centinaia di titoli, e in quel 1970 il suo versante drammatico era ancora vivo, come dimostrano prodotti ancora pregevoli: Vamos a matar compañeros (Sergio Corbucci), E Dio disse a Caino (Antonio Margheriti), Matalo! (Cesare Canevari). Persino la coppia Bud Spencer e Terence Hill fino a pochi mesi prima prendeva ancora sul serio il genere con La collina degli stivali, capitolo finale di una trilogia firmata da Giuseppe Colizzi che aveva già fatto notare la non comune alchimia fra i due attori.

Se in altri contesti, dunque, la rappresentazione della violenza prende il largo, nel western comincia invece ad attenuarsi. Ma ciò non dipende da considerazioni di ordine morale.

A differenza del western americano, quello italiano non ha mai avuto una grande varietà di contenuti, vertendo fondamentalmente sui temi piuttosto elementari della vendetta e della contrapposizione fra cacciatori di taglie e fuorilegge. Nel giro di pochi anni, complice la quantità davvero impressionante di film prodotti, era quindi fisiologico che si arrivasse a una precoce saturazione di situazioni narrative. E il registro ironico e ludico di Lo chiamavano Trinità nasce sostanzialmente come una scappatoia da questa situazione.

Il regista E.B. Clucher, alias Enzo Barboni, figlio del grande direttore della fotografia Leonida, scrive di suo pugno una storia semplice che contamina il cinismo e la violenza tipici del sottogenere italiano non solo con l’ironia, ma anche con accenni di romanticismo che riconciliano con le radici americane.

Dal sapore un po’ hollywoodiano è anche la regia, con uno spiccato gusto per la composizione dell’inquadratura e il parziale recupero di una retorica tecnico-espressiva classica. Il risultato è uno spettacolo da oratorio che aspira ad allargare il pubblico dello spaghetti-western a tutta la famiglia. Ciò non toglie che la sceneggiatura presenti anche delle raffinatezze. L’incipit con Hill su una lettiga trascinato da un cavallo, cita apertamente I fanciulli del West (“Way out West“,” James W. Horne, 1937), uno dei più famosi successi di Laurel e Hardy, a profetica conferma di quanto Barboni credesse nelle doti comiche del nuovo duo. E l’idea di uno sceriffo a cui il personaggio di Spencer si sostituisce, e che prima o poi, forse, dovrà tornare, conferisce alla cornice narrativa un qualcosa di beckettiano che esplicita l’atmosfera da teatro dell’assurdo da sempre serpeggiante nel western all’italiana.

di Emilio Ranzato