Vita, dolori e diritti negati nell’ultimo romanzo di Carola Susani ambientato in una baraccopoli

Storia di un ragazzo capace di tornare

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22 aprile 2020

«Per la maggior parte della mia vita, davo allegramente le spalle alla discesa e guardavo di là. Di me pensavo: sono quello che guarda di là, e questo mi bastava per inorgoglire». Ha dodici anni Ciccio nella Sicilia dei primi anni Settanta, vive con la madre e la sorellina in una baraccopoli costruita dopo il terremoto. Ciccio, come specifica lui stesso, vive «nella fila al di qua della comunale», perché la posizione conta. Eccome se conta.

Da lontano infatti la baraccopoli è solo un luogo senz’acqua, ma da vicino è microcosmo vibrante di vita, dolori, diritti negati e ghetti, riprodotti al di là del tempo e della geografia. Perché se dopo il terremoto impiegati e commercianti si sono ritrovati con minatori, braccianti e delinquenti nella stessa baraccopoli, «l’eco della catastrofe che livella» è stata presto «soffocata dal ritorno alla vita». E così, perché non è proprio detto che dalle disgrazie si esca migliori, l’ordine si ricompone lasciando minatori e braccianti a est, e delinquenti giù per la discesa, con le famiglie bene che riescono a farsi mettere vicine nella parte «alta e ventosa del villaggio. La più salubre». Ciccio sente tutte le distanze con le altre parti della baraccopoli, specie con quella in cui si è stabilita «un’intera colonia di malacarne di ogni età, identici l’uno all’altro, teste rasate e corpi muscolosi», se ne tiene a distanza perché intimamente teme che gli possano «attaccare il malaffare».

Questo correre, fuggire, inseguire e zompettare soffrendo (molto) e gioendo (un poco) è un aspetto affascinante di Terrapiena (Roma, minimun fax, 2020, pagine 123, euro 15), l’ultimo, acclamato romanzo di Carola Susani. Un libro visionario, cupo, ma mai disperato. È vero che le speranze di un’epoca sono destinate a fallire, ancora e nuovamente; è vero che parte solo chi ha gli strumenti per farlo perché dal mondo di Terrapiena qualcuno può andarsene (salutando addirittura), qualcuno può scomparire, ma i più possono solo restarvi inchiodati; è vero che la catastrofe è lì, e la  mafia  non può che uscire vincitrice con i suoi tentacoli di dolori e morti.

Tutto vero, però Ciccio in perenne ricerca di amore («Andavo come un cane randagio che si struscia per essere adottato, o come la spia di un paese nemico che vuole vendersi la fedeltà») non è mai veramente perduto. Verrà travolto, ma avrà sperimentato cosa significa allontanarsi e per quel mondo degli ultimi e degli oppressi che Carola Susani è così brava a tratteggiare, significa già moltissimo.

Perché Ciccio — figlio di una donna «senza chiaroscuri, senza spirito, senza ombre» (una donna su cui superstizione e religione non attecchiscono, interessata com’è a soddisfare solo i suoi bisogni) — spera. Perché lui, il bambino a cui fanno domande a cui non sa rispondere (non perché sia ignorante: perché a lui tante cose proprio non vengono nemmeno in mente, raffigurazione potentissima dell’assenza di mezzi e opportunità), diventa un ragazzo capace non solo di partire, ma anche di tornare. Dal bambino «che guarda di là», Ciccio diventa un ragazzo che guarda anche qui. Con tutto ciò che questo comporta.

di Giulia Galeotti