Nel «Diario» (1722) di Daniel Defoe

Ritorno alla realtà

Anonimo, «La piaga di Londra» (1665)
18 aprile 2020

In questo tempo di clausura forzata ci si può imbattere in Diario dell’anno della peste (1722) in cui Daniel Defoe descrive con precisione e drammaticità la peste che afflisse Londra nel 1665. Realtà o finzione? Forse la ricerca storica ha aiutato parecchio l’autore a scrivere, ma non si può nascondere la sua capacità di narrare i fatti e di delineare i personaggi per ciò che sono, con o senza la paura della peste. Le prime vittime sono i poveri, coloro che non hanno nessun tipo di risorsa; in seguito altri moriranno suicidi nell’isolamento imposto dallo Stato; e altri ancora fuggiranno uccidendo le guardie poste a sorvegliare le loro case.

Già nelle primissime pagine è visibile la trasformazione che il virus opera nelle persone: le lacrime e i lamenti dei primi giorni ben presto lasciano il posto a cuori induriti dall’abitudine alla morte e all’indifferenza verso l’altro, per paura di seguirne presto la sorte. La peste altro non è — in un’Inghilterra puritana — la conseguenza dell’ira di Dio per i peccati umani. Analogie con ciò che stiamo vivendo oggi?

Ogni cristiano sa per certo che Dio non punisce nessuno ed è sempre pronto a mostrarci la sua Misericordia. Abbiamo appena vissuto il Triduo Pasquale, il mistero dell’insondabile ed eterno amore di Dio per l’umanità ferita e bisognosa di redenzione, e mai come in questi giorni così smarrita e sola. È quasi scomparsa una intera generazione sopravvissuta alla guerra, alla fame e a ogni genere di privazioni; è stata falciata da un virus che non conosce nazionalità e non guarda in faccia a nessuno, siano re, principi o potenti di turno. Proprio come accade in tutte le epidemie — o pandemie — che non hanno cura: nel 1665 e oggi nel 2020. Si sperimentano farmaci, si cerca un vaccino.

Eppure non sappiamo ancora se tutto questo sta aprendo fino in fondo una breccia nei nostri cuori per farci entrare in quella dinamica di profonda umiltà che ci è necessaria, se non come cristiani, almeno come esseri umani consapevoli di non essere onnipotenti.

Allo stesso modo che nell’epidemia londinese siamo costretti nelle nostre case, anche se con la differenza di un tempo che scorre più velocemente di allora e non ci costringe a fissare le pareti spoglie e il piatto vuoto. Ma come allora i poveri e gli indigenti ci sono ancora: nelle strade e nei condomini dove tutti noi viviamo cercando di non cadere nello sconforto. E in tanti muoiono soli e dimenticati, ovunque. Se la globalizzazione ci ha portato a vivere come tante piccole monadi, ampliando il senso di individualismo e autosufficienza, oggi il covid-19 ci riporta alla realtà che abbiamo ignorato per troppo tempo: siamo fatti per stare insieme, per collaborare, per aiutarci. E allora dobbiamo riscoprire con forza il senso della collettività e della solidarietà senza confini; rispettare le leggi, ma essere solidali tra di noi e tra i Paesi. La Passione secondo Giovanni del Venerdì Santo ci ricorda chi siamo noi e chi è Gesù. E Gesù dice a Pilato: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto». Solidarietà e preghiera sono gli imperativi di oggi che valgono per tutti, specialmente per chi detiene il potere, perché siamo davanti a un nemico subdolo che non rispetta i nostri tempi, non fa pause, non sembra arrestarsi. Bisogna invocare incessantemente la Misericordia di Dio e l’intercessione di Maria come ci ha mostrato Papa Francesco. Cerchiamo di non essere tristi e facciamo tesoro di questi momenti: Dio vuole dirci qualcosa che ancora non riusciamo a comprendere.

di Caterina Ciriello