Nell’ora più difficile per l’Europa occorre trovare un nuovo slancio nella solidarietà

Ritornare al sogno dei Padri Fondatori

A picture taken on April 16, 2020 shows a view of the almost empty European Parliament in Brussels ...
20 aprile 2020

Il 9 maggio prossimo, come avviene da ormai 35 anni, si celebrerà la Giornata dell’Europa. Inevitabilmente quest’anno verrà vissuta con uno spirito particolare. Per alcuni dei Paesi dell’Unione europea, infatti, tale ricorrenza coinciderà con i primi tentativi di ritornare alla “normalità”, altri probabilmente saranno invece ancora alle prese con misure restrittive per contrastare la diffusione del contagio da covid-19. Di certo, questa celebrazione che cade nel periodo più drammatico per l’Europa dopo la Seconda Guerra mondiale, può rappresentare un’opportunità per soffermarsi a riflettere sull’identità e la missione della Casa Comune europea. A partire da questa Giornata, il 9 maggio, che pochi tra i cittadini europei sentono come propria e ancora meno, probabilmente, sanno perché sia stata scelta per questo evento.

Il 9 maggio del 1950, siamo dunque nel 70° anniversario, il ministro degli esteri francese Robert Schuman pronunciava un memorabile discorso con cui proponeva la creazione di una Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca), primo passo di un cammino che, attraverso una serie di istituzioni continentali, avrebbe condotto quarant’anni dopo alla nascita dell’Unione europea. Colpisce l’attualità di quella dichiarazione. Schuman, infatti, con ancora negli occhi le immagini della devastazione provocata dalla guerra fratricida che aveva sconquassato l’Europa e il mondo, ammoniva che non si sarebbe potuta salvaguardare la pace «se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano». Pace e solidarietà. «L’Europa — affermava Schuman intravedendo il percorso che si sarebbe snodato nei decenni successivi — non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme: essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto». E parlando dell’obiettivo primario della Ceca: la fusione della produzione di carbone e acciaio — innanzitutto di Francia e Germania — sottolineava che «questa produzione sarà offerta al mondo intero senza distinzione né esclusione per contribuire al rialzo del livello di vita e al progresso delle opere di pace». La forza profetica di quelle parole fu tale che, anche a distanza di molti anni, al Consiglio europeo di Milano nel giugno del 1985 furono prese come punto di riferimento per la istituenda Festa dell’Europa che, appunto, coincide con la data in cui Schuman pronunciò il suo celebre discorso.

L’avvicinarsi di tale ricorrenza, in una situazione che mette a dura prova la tenuta della costruzione europea, ci ricorda che si può imparare ancora molto da come i “Padri Fondatori” hanno risposto a emergenze diverse ma non meno gravi di quella che oggi sono chiamati ad affrontare i leader dell’Unione europea. «Uomini politici obiettivi e realisti», richiamando le parole di Joseph Ratzinger, per i quali «la politica non era puro pragmatismo, poiché entrava in relazione con la morale». Ritornare alle radici, ai valori fondanti dell’Europa è proprio il richiamo che Francesco — primo Papa non europeo dopo secoli — ha costantemente posto all’attenzione dei leader e dei popoli europei e da ultimo, in un modo che ha colpito in tanti e non solo i credenti, nel Messaggio Urbi et Orbi di Pasqua. «Dopo la Seconda Guerra Mondiale — ha ammonito Francesco in tale circostanza — questo continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di superare le rivalità del passato». Il virus antico delle divisioni e dell’egoismo, che ritorna, e il vaccino sempre efficace della solidarietà o, per dirla con un’espressione ancor più cara al Papa, della “fratellanza umana”.

C’è bisogno di memoria per affrontare il presente e progettare il futuro, ancor più in tempi in cui vengono meno tante certezze. Il Papa venuto dalla fine del mondo, ma figlio di immigrati del Vecchio Continente, lo ha ricordato tante volte e in contesti diversi: in Vaticano come a Strasburgo. E nei suoi viaggi apostolici in Europa quasi sempre in Paesi lontani dal centro politico ed economico, dal suo primo in Albania all’ultimo in Romania. Forse il modo più eclatante in cui ha esortato a tornare alle radici — sulle orme di un altro grande Papa europeista come Giovanni Paolo II — è stato ricevendo il Premio Carlo Magno. Il 6 maggio del 2016, rivolgendosi ai vertici delle istituzioni europee, ha ricordato, con le parole di Elie Wiesel, che abbiamo bisogno in Europa di una “trasfusione di memoria”. Questa, sottolineava riprendendo le parole del sopravvissuto ai lager nazisti, «non solo ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato, ma ci darà accesso a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano incontrando».

Il sogno di Francesco per l’Europa è quello dei Padri Fondatori. Un sogno a cui bisogna “ritornare”, come ha detto durante la conferenza stampa in aereo di ritorno dalla visita in Romania, il 2 giugno scorso. Un sogno chiamato “solidarietà” di cui oggi più che mai c’è bisogno per «aggiornare l’idea di Europa». In occasione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, ricevendo i capi di Stato e di governo dell’Unione europea, Francesco ha sottolineato che «l’Europa ritrova speranza nella solidarietà che è anche il più efficace antidoto ai moderni populismi». La solidarietà, ha ammonito, «non è un buon proposito: è caratterizzata da fatti e gesti concreti» e ricordava che, proprio partendo dalla solidarietà, bisogna «ricominciare a pensare in modo europeo». Era il 24 marzo 2017 quando Francesco pronunciava queste parole. Sono passati solo tre anni eppure gli ultimi tre mesi — con il loro carico di sofferenze, morte e angoscia — fanno sembrare quel discorso molto più lontano nel tempo. Eppure proprio la crisi che stiamo vivendo lo rende più urgente, perché — come affermato giusto tre anni dopo, nella toccante Statio Orbis del 27 marzo scorso — questo è davvero il tempo della solidarietà in cui «nessuno si salva da solo».

di Alessandro Gisotti