Dall’Italia al Brasile a fianco dei più deboli sull’esempio missionario di don Paolo Tonucci

Riconsegnando la dignità

Settembre 1970: Paolo Tonucci a Recife insieme a monsignor Hélder Câmara
10 aprile 2020

Il fil rouge della solidarietà lega l’Italia al Brasile, le città di Fano e Merano a quella di Camaçari. La storia di don Paolo Tonucci è quella di un uomo, per dirla con le parole di chi lo ha conosciuto, «che ha seminato dove la terra è arida, ha dato il sorriso dove il sorriso è vita, ha insegnato a scoprire Dio dove Dio non si vede, ha dato il perdono a chi non è perdonato da nessuno». Tutto questo si è tradotto nella nascita dell’associazione Apito che oggi, 26 anni dopo la scomparsa di don Paolo, è ancora al fianco dei più deboli e dei bisognosi. Ne abbiamo parlato con Delia Boninsegna, che per molti anni ha collaborato con il sacerdote e che ora è presidente di Apito Brasile e presidente onorario di Apito Italia.

Come nasce questo cammino di fede, solidarietà e speranza?

Erano passati tre anni dalla scomparsa di don Paolo Tonucci. Un gruppo di amici del missionario, in Brasile quanto in Italia, sentirono il dovere di mantenere viva l’eredità ideale che egli aveva lasciato. Ma come farlo? Fecero ciò che avrebbe fatto lui, guardarono ai più deboli e bisognosi. Cercarono di comprendere quale fosse il bisogno più grande.

Guardano dunque alla parrocchia di don Paolo In Brasile?

Sapevano che nella parrocchia di Camaçari, della quale don Paolo era stato responsabile, un gruppo di signore, un centinaio più o meno, davano assistenza a famiglie bisognose nella periferia della città. Le famiglie erano, per lo più, formate da donne abbandonate e dai loro bambini. Le madri erano provenienti da stati dell’interno del Brasile, costrette a emigrare o per l’imperversante siccità o per la prepotenza dei padroni dei latifondi, che non permettevano la loro presenza o le costringevano a vivere in una forma palese di schiavitù. Per lo più erano analfabete e, molto spesso, i loro figli non erano stati neppure registrati all’anagrafe pubblica.

Cosa spingeva queste donne, probabilmente anch’esse indigenti, ad aiutare il prossimo?

La fede. Avevano formato un gruppo chiamato “Fami”, da famiglia. Si dedicavano a questa missione spinte appunto dalla loro scelta di fede, già espressa nell’impegno come animatrici di comunità, catechiste, membri della Legione di Maria. Erano donne molto volitive, una volta al mese si ritrovavano per fare il punto sulle attività svolte. Cercavano di capire cosa si potesse fare guardando sempre al domani.

Ma in concreto cosa avevano da offrire a questa gente?

In primis la speranza. Creavano con le famiglie alle quali prestavano assistenza una relazione di amicizia e di solidarietà. Davano loro appoggio e assistenza morale. Le incoraggiavano all’iscrizione all’anagrafe e alla scolarizzazione dei bambini, guidando le donne a ottenere quanto era loro dovuto dall’organizzazione civile.

Riuscivano a prestare anche assistenza materiale?

In forme diverse, a seconda delle necessità, riuscivano a fare avere generi alimentari di prima necessità. Ma c’era anche una grande attenzione a non creare delle dipendenze e a stimolare lo spirito di iniziativa di quanti beneficiavano di questa assistenza.

Fu quindi a questa Fami che guardarono gli amici di don Paolo?

Sì. Si rivolsero alle signore del gruppo e alle loro assistite. Chiesero loro quali fossero le iniziative più urgenti da realizzare. La priorità più evidente fu quella di avere una scuola materna nella quale lasciare i bambini, mentre le madri andavano al lavoro o alla ricerca di un impiego.

Questa la genesi di Apito?

Sì, l’obiettivo era di istituire una scuola materna, che non solo permettesse ai bambini di avere un posto sicuro dove stare, ma fornisse anche una adeguata formazione per poter accedere ai gradi superiori di educazione. La scuola nacque nel 1998, con aiuti provenienti dalle città di Fano e di Merano.

Poi negli anni non ci si è più fermati.

Ci siamo ispirati alle preoccupazioni vissute da don Paolo: sostenere i diritti umani, aiutando le persone a prendere coscienza della propria dignità, senza sostituirsi ad esse. Per cui ora si continua a lavorare nel campo dell’educazione, non necessariamente scolastica, seguendo gruppi di adolescenti e giovani, in maggioranza ex alunni della scuola materna. Il desiderio è quello di offrire altre opportunità di crescita, con incontri formativi e con corsi liberi di inglese e italiano, di uso dei computer, di teatro, di percussione musicale. Tutto questo preservando le culture e tradizioni locali e il rispetto delle diversità, nella composizione multietnica della società brasiliana.

Lei oggi è presidente di Apito Brasile e presidente onoraria di Apito Italia. Cosa lega queste due realtà?

Ciò che facciamo già definisce chi siamo. Per questo, per far conoscere la vita e gli ideali di don Paolo, è stata scritta una breve biografia Don Paolo Tonucci uomo, sacerdote, profeta (Bergamo, Velar, 2014, pagine 48, euro 4). Più recentemente è stato inaugurato il sito internet www.donpaolotonucci.it nel quale sono riportati molti testi da lui redatti nel corso dei 29 anni vissuti in Brasile. E c’è anche un’ampia documentazione fotografica. Le attività di Apito in Brasile possono essere seguite sul sito www.apito.org.br e di Apito in Italia all’indirizzo www.associazioneapito.org.

Qual è il suo personale ricordo di don Paolo?

Credo che il ricordo più bello sia quello che ci ha lasciato con le sue stesse parole: «Mi sono sentito prete impegnato nell’evangelizzazione celebrando la Messa, annunciando la Parola di Dio, lavorando nella scuola professionale, protestando quando venivano distrutte le baracche delle famiglie, facendo amicizia con gli operai, con i disoccupati, gli universitari, i professori di università. Mi sono sentito educatore ed evangelizzatore non solo parlando ma anche compiendo gesti di solidarietà e di liberazione».

di Matteo Cantori