In «Ragazzo italiano», romanzo di formazione nel paese del boom economico

Quel senso di liberazione splendido e curioso

Dalla copertina del libro
25 aprile 2020

È una storia individuale che rispecchia una storia collettiva, Ragazzo italiano. «In questo caso — ha spiegato l’autore nel corso di un’intervista — la storia collettiva è più di ogni altro la storia dell’Italia del dopoguerra. Difficile adesso immaginarsi che peso sia stata la guerra e il seguito immediato della guerra sulla psicologia, sul vissuto quotidiano degli italiani che vivevano allora e in particolare dei bambini come io ero allora e come è il protagonista del romanzo».

Ragazzo italiano (Milano, Feltrinelli 2020, pagine 320, euro 18) primo romanzo del manager dell’editoria Gian Arturo Ferrari, copre un arco di tempo di circa 14 anni, dalla fine degli anni Quaranta ai primi anni Sessanta. Il bambino, il ragazzino, il ragazzo è lo schema di fondo su cui si articolano le tre linee guida attraverso cui l’autore racconta e scandisce le fasi di un’iniziazione alla vita adulta.

Nella prima parte la vita di Ninni, il protagonista, si divide in due periodi «da metà ottobre a fine maggio a Zanegrate, da fine maggio a metà ottobre a Querciano, con l’aggiunta di alcune settimane intorno a Natale». Querciano è l’Emilia agricola e rurale, Zanegrate è il mondo duro e abbastanza feroce della Lombardia della prima rivoluzione industriale. Nella seconda parte c’è la scoperta di Milano, la grande città, ancora ferita dalle tante “voragini nere” dei bombardamenti, ma proiettata verso la seconda rivoluzione industriale che non è più solo ciminiere. Una città in fermento, dove nessuno vuole cedere o tornare indietro, «così di salto in salto, sempre avanti (…) convinti che faticando lo stesso o forse un po’ di più a Milano si potesse cavarne un frutto maggiore». Milano appare cordiale, aperta, ci sono le divisioni, ma sono meno invasive, qui uno spazio si può trovare. La terza parte è l’ingresso del protagonista nel mondo di cui farà parte, quello dei libri, della cultura e di tutto quello che i libri possono offrire.

Il tessuto narrativo — pragmatico, diretto, mai elegiaco, spesso divertito, di ininterrotta godibilità — si sussegue in brevi capitoli ben collegati, ma ognuno con un nucleo tematico di riferimento preciso, planabile per questo nel «coro immenso di voci diversissime» di un’antologia scolastica, un’idea, l’antologia, che «Piero studente universitario avrebbe mandato al patibolo» ma che nei lunghi pomeriggi estivi della sua adolescenza «gli aveva però aperto le porte del paradiso».

La vita di Ninni tra la campagna emiliana, dove la nonna Emma, maestra elementare, possiede poderi dati a mezzadria ai contadini, e un paese della provincia lombarda, dove nei mesi di scuola Ninni abita con la sorellina Lella e i genitori, è la ricostruzione fedele della società italiana a guerra appena terminata. La vita è povera, c’è una fondamentale asprezza nei caratteri e nelle relazioni, è un mondo di grandi privazioni e la guerra è ancora cosa viva; può accadere, durante una gita in montagna, di trovarsi davanti a un casolare bruciato, teatro di una terribile rappresaglia nazista. Ma allo stesso tempo c’è il desiderio di andare avanti, di dare il massimo, di incanalare l’ansia e la depressione in un ottimismo non della volontà, ma della pratica.

La narrazione continua incalzante. La famiglia piena di segreti mai rivelati, di incomprensioni che vengono da lontano, di rapporti difficili, su tutto gli occhi attenti del bambino. La descrizione dei riti della campagna, il ruolo padronale della nonna, maestra rigida, sempre vestita di scuro dopo la precoce vedovanza. Nonna Emma ha, come sempre, il polso della situazione: è inevitabile che di lì a poco, niente sia più come prima. «La Gazzetta agricola» non lo scrive «ma si capiva benissimo che la mezzadria era inesorabilmente destinata a scomparire» e allora diventa ancora più determinata, lei, donna di scuola, figlia nipote e madre di donne di scuola, a insegnare al nipote un metodo di studio solido, una dedizione all’imparare «unica luce nel buio del futuro», unica eredità certa che le rimane da lasciare.

Querciano per Ninni è «il suo vero posto nel mondo», da amare senza riserve a differenza di Zanegrate dove le ciminiere ululano quattro volte al giorno, dove tutto è sempre «grigio, spesso nebbioso» e gli unici colori, da casa a scuola, sono quelli che vede, da un ponticello, nel Cranetta, un rigagnolo che «tra i sassi squillava di colori violentissimi, verde smeraldo, rosso fiamma, viola, giallo acido, che cambiavano ogni giorno, anche più volte al giorno». Un giorno Ninni scende per toccarli e al tatto sembrano «intestino di animali mai visti o le eruzioni di un’orrenda malattia. Schifosi».

Nelle classi, compresa quella di Ninni, la disposizione dei banchi è in ordine di censo, nei primi i più ricchi, poi man mano si scende fino agli ultimi dove stanno i più poveri, quelli che usufruiscono della refezione, perché le mamme sono operaie e non possono preparare da mangiare. I voti rispecchiano le postazioni, a parità di prestazione, decrescono dai primi banchi agli ultimi «con un effetto di insieme che alla maestra Colombani doveva apparire armonioso».

Finalmente, liberatorio, il trasferimento a Milano. Qui l’elettrico maestro Poli fa esercitare avanti e indietro sulla catena dei perché, poi l’esame di ammissione, l’apriti-sesamo di ogni possibilità futura. A Milano si può andare in giro sulle panche lucidissime dei tram, veri tinelli ambulanti, poi i turni serali alle medie, un’emozione rientrare col buio, la sera. Ora i genitori litigano meno perché è arrivato il televisore, che alleggerisce l’atmosfera. «Discussioni, musi lunghi, tensioni, tutto durava fino all’inizio dei programmi serali (…) non che le divergenze si appianassero» ma si instaura «un cessate il fuoco che non è poco».

Arriva anche, di punto in bianco, la decisione paterna: «Basta. È ora di finirla, non si può affrontare la vita chiamandosi Ninni». Bisogna ripristinare, da subito, il vero nome, Piero (in realtà Pieraugusto). «Ninni, o meglio l’ex Ninni aveva il cuore in gola faceva fatica a respirare, era tramortito». Per un po’ rimane Piero Ninni, poi solo Piero. E va bene così.

Querciano col suo incanto, i suoi non detti, bisbigliati fra grandi, è lontana, ne è rimasta un po’, con i suoi misteri, nel cassetto segreto chiuso a chiave del comò nella camera della mamma. Lella e Piero, soli in casa, sanno dove è la chiave, aprono il cassetto «progetto che coltivavano da tempo»: qualche gioiello, un binocolo, lettere, vecchie foto, ma soprattutto dei certificati con date rivelatrici, «tutto lì! L’oscuro nodo era tutto lì! Il segreto dei segreti?». E ridono, i giovani milanesi, per quella tempesta in un bicchier d’acqua. Altri tempi.

Arrivano poi gli anni del liceo, degli amici, la scoperta dell’amore, dei gruppi impegnati, il coraggio di scegliere, di parlare in un’assemblea. L’idea di un giornale della scuola e l’incontro, deludente, con dei “grandi” che osservano quegli studentelli intervistatori come degli entomologi osserverebbero dei coleotteri. È il tempo dello studio appassionato che fa sentire con meraviglia «la muscolatura mentale irrobustirsi, diventare flessibile». Ma soprattutto diventa chiara l’intuizione che quella dei libri e della cultura è la propria strada. E non è il solo a capirlo. «“Dunque caro mio, vuoi andarti a sentire i lunedì letterari?” Piero procedeva esitante, ma il preside non gli badava, andava avanti per conto suo. “Dunque, questa è la tessera”».

Ferrari è scrittore d’azione, i temi affrontati sono tanti, nessuno rimane sospeso, ciascuno ha un naturale riscontro nella vita del protagonista, anche i più grotteschi; e la cifra narrativa dell’ironia è priva di valutazioni moraleggianti. Quelli erano i tempi, niente da rimpiangere se non quel senso di liberazione, splendido, incontaminato, curioso, che accompagna il protagonista ogni volta che gira pagina.

di Nicla Bettazzi