Il 21 aprile 1910 moriva lo scrittore statunitense Mark Twain

Quanta verità in uno scherzo

«Se dici la verità non devi ricordare nulla» sentenziava Mark Twain
20 aprile 2020

Era sempre vestito di bianco Mark Twain, come Lord Jim di Joseph Conrad. Il candore dell’abbigliamento faceva da contraltare, perché meglio risaltasse, all’oscura fanghiglia (“slush”) che dilagava nella società, ipocrisia, vanità, egoismo: mali, questi, che lo scrittore statunitense (morto il 21 aprile di centodieci anni fa) fustigò nel segno di una vigorosa denuncia morale forgiata al fuoco di una fine e corrosiva ironia.

Il percorso della sua fortuna letteraria richiama quello di Charles Dickens: entrambi sin dalle prime opere s’imposero all’attenzione di critica e pubblico, guadagnandone con rapidità disarmante plauso e favore. Tra i suoi estimatori egli potè vantare Ernest Hemingway, che dichiarò: «Tutta la letteratura moderna americana viene da un libro di Mark Twain, Huckleberry Finn. Tutti gli scritti americani derivano da quello. Non c’era niente prima. Non c’era stato niente di così buono in precedenza». Un elogio non meno significativo gli fu tributato da William Faulkner che lo definì «il primo vero scrittore americano».

Il valore di Samuel Langhorne Clemens (questo il suo vero nome) fu apprezzato anche da Albino Luciani, futuro Giovanni Paolo I, che nel libro Illustrissimi dedica una lettera a Twain, riflettendo sull’essenza della persona a partire da una citazione dello scrittore: «L’uomo è più complesso di quel che pare; ogni uomo adulto rinserra in sé non uno, ma tre uomini diversi: prendete un Sor Giovanni qualunque. In esso c’è il Giovanni Primo, cioè l’uomo che egli crede di essere; c’è il Giovanni Secondo, quello che di lui pensano gli altri; e finalmente il Giovanni Terzo, ciò ch’egli è nella realtà». E Albino Luciani così chiosa: «Quanta verità, Twain, nel tuo scherzo!». Nella stessa missiva il futuro Papa ricordava la valutazione dello scrittore sui libri: valutazione permeata di garbato sarcasmo e ispirata a un’irriverenza solo apparente. «Un libro legato in pelle è eccellente per affilare il rasoio; un libro piccolo, conciso, come lo sanno scrivere i Francesi, serve a meraviglia per la gamba più corta di un tavolino; un libro grosso come un vocabolario è un ottimo proiettile per tirare ai gatti; e finalmente un atlante, coi fogli larghi, ha la carta più adatta per aggiustare i vetri». Twain fu «uno degli autori preferiti della mia infanzia» scrive Albino Luciani, sottolineando in particolare «le spassose» Avventure di Tom Sawyer, libro pubblicato nel 1876.

Ambientato nella cittadina fittizia di St. Petersburg in Missouri, sulle rive del fiume Mississippi, in un periodo di tempo precedente alla guerra di secessione, il romanzo racconta le gesta di un ragazzo, irrequieto e vivace, che — come “i tre Giovanni adulti” — riassume in sé il convergere di tre personalità, come spiega nella prefazione lo stesso autore: «Tom non nasce da una persona sola. Per lui ho messo insieme il carattere di tre ragazzi che conoscevo. Il risultato è quindi un’architettura d’ordine composito».

Questa sistematica amalgama — tre giovani, tre adulti — tradisce lo scrupolo di Mark Twain di esaurire la caratterizzazione di un personaggio, non lasciando zone inesplorate. L’introspezione deve essere completa, esaustiva, proprio perché è chiara la consapevolezza che ogni individuo è composto da più sfaccettature, spesso anche in contrasto fra loro. E se uno scrittore si assume la responsabilità di frugare nell’io delle creature che plasma, non si può permettere lacune e approssimazioni.

Si tratta di un’urgenza etica riscontrabile, tra gli altri, in Luigi Pirandello, anch’egli guidato, quasi ossessionato, dal principio, sentito come responsabilità e dovere, di rendere giustizia a ciascun personaggio, affinché il lettore lo possa conoscere come realmente è. Tale concezione è mirabilmente espressa nella figura del padre nei Sei personaggi in cerca d’autore. Egli, additato come colpevole per un atto impuro che stava per compiere ai danni della figliastra, reclama giustizia perché una persona non può essere giudicata per un solo gesto, destinato a «imprigionarlo per tutta la vita». E solo lo scrittore, che l’ha creato, può rendergli la giustizia che egli invoca. Lo stesso avviene con Mark Twain perché, al di là della sua visione disincantata del libro, egli sa bene quanta benefica influenza possa avere sulla gente la letteratura che, proprio attraverso il libro, è chiamata a svolgere nella società e a benefico di essa un ruolo illuminante ed edificante.

Il seguito ideale delle Avventure di Tom Sawyer è costituito da Le avventure di Huckleberry Finn (1884), romanzo picaresco, narrato in prima persona da un ragazzino orfano che a un certo punto decide di fuggire dalla «civilizzazione umana» in compagnia di Jim, uno schiavo di colore mite e di buon cuore. Faranno un viaggio di 1.800 chilometri a bordo di una zattera lungo l’immancabile Mississippi, fiume che per lo scrittore rappresenta il testimone impassibile e al contempo affettuosamente partecipe delle imprese compiute dai suoi personaggi.

Ma sebbene l’opera si prospetti come il racconto di una fuga dalla società sentita ostile e gretta, esso si trasforma in realtà in una sorta di rassegna teatrale in cui sfilano — in una sorta di commedia umana di balzachiana memoria — numerose figure, ciascuna descritta con icastica evidenza. Dalla vedova Douglas, anziana signora benestante che sente come missione quella di fare del ragazzo «un bravo ragazzo», alla sorella Miss Watson, arcigna zitella, con tanto di occhialini: anch’ella si sobbarca una missione, impartire ad Huckleberry le basi di una adeguata formazione culturale. Grazie a Miss Watson il ragazzo imparerà a leggere, e anche a contare. Ma solo fino a 35. Il libro è caratterizzato da un linguaggio che attinge largamente al parlato e a forme dialettali (lo stesso autore fa un’avvertenza in una nota specifica): fatto questo che risultò sgradito alla critica benpensante. Tanto che il romanzo, l’anno dopo la sua pubblicazione, venne radiato dalla Biblioteca pubblica di Concord, nel Massachusetts, perché giudicato non adatto ai ragazzi.

A rendere celebre Mark Twain e ad assicuragli uno scranno imperituro nell’empireo dell’universo culturale concorrono i suoi aforismi, distillato di fine ironia e penetrante saggezza. «Una bugia — lamenta — fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe»; «se votare facesse qualche differenza, non ce lo lascerebbero fare» rileva. E, in omaggio al valore della lealtà, verso sé stessi e verso gli altri, dichiara: «Se dici sempre la verità non devi ricordare nulla». Ma forse l’aforisma, o meglio l’esortazione, in cui meglio si specchia la sua indole scalpitante e ribelle di fronte ai ceppi e alle pastoie imposte dalla società, è quella che così recita: «Rompi le regole, perdona velocemente, bacia lentamente, e non rimpiangere mai ciò che ti ha fatto sorridere. Leva dunque l’ancora, abbandona i porti sicuri, cattura il vento nelle tue mani, ed esplora, sogna, scopri».

di Gabriele Nicolò