L’attualità de «L’uomo che piantava gli alberi» di Jean Giono

Povertà del suolo e ricchezza di un sogno

Illustrazione di Simona Mulazzani tratta dall’edizione Salani (1996)
16 aprile 2020

Quando Jean Giono ha deciso di raccontare la storia di un insolito pastore che, in una desolata landa delle Basse Alpi francesi, si era messo in testa di piantarvi così tanti semi di albero da ridare vita al paesaggio locale cambiandolo radicalmente, forse non aveva mai immaginato che questa vicenda semplice, docile e persino ingenua nello stile narrativo, potesse diventare un notevole successo letterario, colpendo in modo così plateale e incisivo l’immaginario collettivo, da risultare più che mai attuale anche ai nostri giorni — quasi settanta anni dopo la sua stesura — nel frattempo profondamente cambiati dal punto di vista climatico e non solo, da farci credere di essere veramente a un punto di non ritorno.

La povertà del suolo di buona parte del dipartimento in questione e la sua altitudine rappresentavano le condizioni più sfavorevoli per la crescita dei villaggi locali e persino per il normale sviluppo della vita umana, motivi per cui risultava essere tra le regioni meno popolate e meno ricche di tutto il Paese transalpino, dove specialmente d’inverno il paesaggio poteva apparire quasi spettrale. In tale scenario si svolge uno dei più significativi, semplici e al tempo stesso profondi dialoghi tra l’uomo e la natura — uscito dalla penna di uno scrittore e saggista prolifico, vario e molte volte caustico, sensibile, autodidatta, dotato di una cultura immensa e di una curiosità praticamente universale, che lo porterà a leggere da solo la Bibbia e Omero — che risuona come un accorato appello a contrastare con il buon senso e la poesia un mondo sempre più indifferente alla tutela del territorio e dell’ambiente circostante. Nel suo lavoro Giono arriva a sfoggiare a volte una specie di mistica cosmica, ma senza trascendenza, forse seguendo il solco del pensiero filosofico spinoziano alla base del Deus sive natura che esalta una certa identità tra Dio e la natura.

In quelle contrade disabitate, sassose e brulle, in cui l’unica vegetazione che vi cresceva era la lavanda selvatica e dove «il vento soffiava con brutalità insopportabile», praticamente dimenticato dall’uomo e da Dio, ritiratosi dal mondo e dalla compagnia dei suoi simili, un umile pastore viveva lentamente e in completa solitudine — intesa però più come condizione accidentale che come sentimento umano, visto che a dir suo non si sentiva solo — e lì passava le lunghe giornate con il suo cane, prima sorvegliando il proprio gregge e anni più tardi curando i suoi alveari, incurante della vita al di fuori del suo universo e dell’orizzonte che necessariamente lo delimitava. La narrazione è ambientata tra i due terribili conflitti mondiali.

Il protagonista del racconto, tale Elzéard Bouffier, appunto L’uomo che piantava gli alberi (pubblicato nel 1953), senza alcun tornaconto personale e nel più assoluto anonimato, diventa gradualmente per il lettore la personificazione di un impareggiabile messaggio d’amore per la natura, il quale nasce dal profondo rispetto che l’essere umano è chiamato a nutrire nei confronti della madre terra e delle bellezze che la adornano. Ci si accorge presto inoltre come il pastore, nonostante la povertà dei mezzi di cui dispone e la massima sobrietà in cui trascorre i suoi giorni apparentemente così monotoni, abbia una personalità davvero eccezionale, una volta che tutto il suo ispirato operato nascosto risulta essere totalmente privo di qualsiasi forma di egoismo, in un clima di grande rudezza che invece tende a esasperare l’individualismo.

Da dove sarebbe potuto sfociare questo speciale connubio, tra la semplicità dei suoi modi e la grandezza del suo spirito, se non appunto dalla sua acuta percezione interiore della natura come un’imprescindibile parte di sé, senza la quale lui stesso aveva l’impressione di non essere capace di provare nella propria vita neanche un piccolo sentore di felicità. Eh, già, la felicità, perché nell’intimo la ricerca di questo particolare stato d’animo non può essere preclusa proprio a nessuno.

Partendo così da una semplice ghianda di quercia, da un seme di faggio o betulla, nel desiderio di rinverdire il suo mondo, nel pastore ha preso il sopravvento una sorta di proiezione ideale di rimboscamento, dapprima si direbbe in modo un po’ fantasioso ma successivamente sempre più realistico, a tal punto da spingerlo a vedere in tali piante l’unica vera risorsa capace di riscattare l’intera area da un intollerabile deterioramento che non la smetteva di prosciugare.

Presso le più diverse culture, l’albero è da sempre simbolo di vita e saggezza, e quindi non è eccezione in questo racconto, descritto con grande acume dei sensi da uno scrittore che già nella vibrante Lettera ai contadini sulla povertà e la pace (edita nel 1938, alla vigilia della seconda guerra mondiale, per cercare di evitare l’annullamento della cultura e della saggezza tipiche del mondo rurale), lasciava intravedere in modo limpido e poetico un prorompente pensiero morale, secondo il quale la natura è sempre superiore alla tecnologia e pertanto l’uomo non può essere salvato che tramite un lavoro compiuto in stretto contatto con la terra.

Questa toccante ed esemplare parabola pastorale, che esalta con estrema semplicità la necessità e la bellezza del rapporto uomo-natura, senza tuttavia decadere in falsi miti romantici o idealismi irrazionali, ha portato molti a riconoscere nella voce narrante un fremente appello, come profondo solco nel terreno, a vedere nell’immane opera scaturita dalle mani e dall’anima di quell’uomo senza l’uso di mezzi tecnici, che «gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre la distruzione». Ed è così che nell’arco degli anni dove c’era un deserto germogliò un rigoglioso giardino e in tutte quelle contrade cominciarono a fiorire di nuovo i villaggi e la vita stessa.

Se è vero che nella mente e nelle mani l’uomo ha non solo il potere di distruggere, ma prima di tutto quello di cercare di costruire la felicità, propria e altrui, questo scritto di Giono si presenta più che mai attuale e provvidenziale, mentre ci richiama al sogno di poter vivere oggi e domani in un pianeta più rispettato, più curato e più amato, e di conseguenza alla trasformazione del sogno in speranza, e della speranza in realtà. Parafrasando la descrizione con la quale spesso si suole presentare il patriarca Noè, protagonista esemplare del racconto biblico del diluvio universale, a volte «basta un uomo buono perché ci sia speranza».

E non è un caso che, dopo aver letto la piccola e commovente storia di questo “uomo buono” dei nostri tempi, lo scrittore José Saramago non abbia esitato a introdurla con queste parole: «Solo chi ha scavato la terra per porne una radice o la sua speranza può aver scritto questo libro. Siamo davvero in attesa che arrivino un bel po’ di Elzéard Bouffier reali. Prima che per il mondo sia troppo tardi».

di Sergio Suchodolak