Cambio di priorità ai tempi del coronavirus

Pietre d’inciampo

Annibale Carracci, «Allegoria della Verità e del Tempo» (1584-1585)
18 aprile 2020

Esce oggi «Siamo tempo (L’avevamo scordato)», l’ebook, scaricabile gratuitamente dal sito dell’editore Emi, di Gerolamo Fazzini, collaboratore dell’«Osservatore Romano», dedicato alla nostra percezione del tempo e del suo trascorrere all’epoca del covid-19. Ne pubblichiamo uno stralcio.

L’esperienza della «quarantena esistenziale» legata alla pandemia da coronavirus ci ricorda che la vita è fatta di priorità. Se vado a vedere la recita di mio figlio di prima elementare e, per farlo, mi assento un paio d’ore dal lavoro, ho perso tempo o l’ho guadagnato? Se, per colpa di un’urgenza (che poi, a conti fatti, tale non era), mi perdo uno degli irripetibili momenti della vita, per esempio la nascita del figlio, quanto mi struggerò, poi, nel rimorso? All’indomani della pandemia da covid-19 credo che la risposta sia chiara.

Un cataclisma di quelle proporzioni non può non costringerci a mettere dei punti fermi. E a ripartire su più solide basi rispetto a prima, all’epoca in cui il Pil dettava legge su tutto e tutti. Nel suo L’illusione della crescita (Il Saggiatore, 2019), David Pilling, editorialista economico del «Financial Times», evidenzia una contraddizione del nostro tempo: «Se rimani bloccato nel traffico per un’ora contribuisci al Pil. Se invece vai a casa di un amico per dare una mano a imbiancare, no».

Questo covid-19, insomma, si sta rivelando una vera e propria pietra d’inciampo o, meglio, un segno di contraddizione, che «svela i segreti di molti cuori». Lo sottolineava anche Alessandro D’Avenia nella sua rubrica Ultimo banco sul «Corriere della Sera» del 6 aprile scorso: «Quando perdiamo ciò su cui puntiamo di più (amore, affetti, carriera), la vita ci si mostra nella sua nuda fragilità e: o ci si perde o ci si ritrova una volta per sempre». La morte ci spaventa non solo perché ci fa sentire polvere, precari, ma perché ci mette davanti alla terribile evidenza che un giorno (non sappiamo quale) le nostre relazioni più care si interromperanno. E da lì in poi muterà completamente il modo col quale continueremo a relazionarci con chi ci sta più a cuore.

C’è chi sparge le ceneri della moglie in mare aperto, chi va a pregare sulla tomba dei genitori al cimitero, chi tiene sulla scrivania la foto del figlio prematuramente scomparso. Segni diversi che esprimono un solo desiderio, anzi un urlo: «Tu, per me, ci sei ancora, perché io continuo ad amarti».

Delle tante immagini che ci hanno sommerso in questi mesi non è forse, ad averci letteralmente scioccato, quella colonna dei camion militari che si portavano via decine e decine di bare? Ognuna di esse conteneva una persona cui, nell’ultimo istante, nessuno aveva potuto stringere la mano, dare il conforto di una parola amica, condividere una preghiera. Su «La Stampa» del 6 aprile, Domenico Quirico ha dato voce all’angoscia di tanti, concludendo un intenso articolo intitolato Morire da soli, la crudeltà di una fine senza avere la certezza di essere amati con queste parole: «Cos’hanno mormorato nell’ambulanza che li ha portati verso la segregazione? Di chi hanno chiesto, invocato? L’epidemia ci spoglia dell’essenziale, la vita, e dell’accessorio, ci costringe a cedere alla disperazione e mette in dubbio anche la certezza che siamo amati». Prendere coscienza che tutti «siamo tempo» forse potrà condurci a guardare in modo diverso anche al rapporto fra le generazioni.

Nell’emergenza coronavirus, purtroppo, è scattato, in alcuni casi-limite, un meccanismo implacabile, per cui, dovendo scegliere, sono stati salvati i pazienti meno anziani. C’è da augurarsi che tale logica, comprensibile in un contesto eccezionale e di emergenza, non diventi la regola. Non oso immaginare a cosa porterebbe una sanità piegata totalmente al rapporto costi-benefici, una società dominata da criteri di sapore darwiniano, dove sono premiati i giovani e forti e dove invecchiare diventa una colpa. Fosse così, potremmo ritrovarci a breve nello scenario cupo dipinto da alcuni racconti di fantascienza (penso a The Test, scritto nel 1958 da Richard Matheson e pubblicato in Le meraviglie del possibile, Einaudi). Ma io sono convinto che proprio la traumatizzante esperienza collettiva del coronavirus possa produrre gli anticorpi per evitare tale rischio.

di Gerolamo Fazzini