La peste di Atene raccontata dallo storico Tucidide

Pericle e i medici eroi

Philipp von Foltz, «Pericle tiene un’orazione funebre per le vittime della peste» (1873)
18 aprile 2020

Era il fiore all’occhiello di Atene nonché il simbolo della supremazia della sua flotta il porto del Pireo, citato con orgoglio anche da Platone nella Repubblica: ma proprio attraverso di esso si pensa fosse entrata la peste nella città-stato, durante il secondo anno della guerra del Peloponneso, nel 430 a.C. Il porto, infatti, era allora l’unica fonte di cibo e di rifornimenti. La peste, a parte un breve intervallo, si diffuse anche l’anno successivo e ritornò, con acuta virulenza, anche nel 426 a.C.

Un preciso contesto politico-militare spiega l’attecchirsi del morbo. Sparta e i suoi alleati, a eccezione di Corinto, avevano floride economie quasi esclusivamente di terraferma e anche i loro eserciti di terra potevano vantare un’organizzazione di valore eccelso. Atene, dal canto suo, contava su una flotta di prima grandezza. Sotto la direzione di Pericle, celebre militare, oltre che politico e fine oratore, gli ateniesi si ritirarono dietro le mura della città. Tale strategia, diretta ad attirare il nemico per poi infliggergli il colpo di grazia, si rivelò invece letale per gli ateniesi.

Dalle campagne, infatti, molte persone si riversarono nella città, già ben popolata: le scorte di cibo, da principio più che abbondanti, si esaurirono in breve tempo. Si verificarono di conseguenza ripetuti e caotici assalti ai tanti mercati, grandi e piccoli, disseminati nella città: uno scenario che si venne sempre più a deteriorare anche a causa di una quasi totale mancanza di igiene. Il sovraffollamento, la carenza di adeguate misure sanitarie, il caldo asfissiante furono tra i fattori che contribuirono a determinare le condizioni perché si diffondesse il morbo, il quale, inclemente, cominciò a mietere vittime, tra le quali figurarono lo stesso Pericle, la moglie e i due figli.

La peste venne raccontata, con dovizia di particolari, da Tucidide, considerato «il primo storico scientifico», nella Guerra del Peloponneso. Secondo la sua interpretazione degli avvenimenti, l’epidemia aveva avuto la sua scaturigine in Etiopia per poi passare in Egitto e quindi in Libia. Colpisce, nell’avvincente e serrato racconto intessuto da Tucidide, la meraviglia di fronte a un fatto di cui non si aveva memoria nel mondo antico. La meraviglia dello storico era la stessa meraviglia che invase i medici i quali si sentirono impotenti non sapendo quali argini porre al dilagare del morbo. Gran parte di loro soccombettero all’epidemia, essendo ovviamente entrati in contatto con i malati nel disperato tentativo di dare loro adeguata assistenza. Si stima che la peste uccise due terzi della popolazione.

Tucidide quindi sottolinea che l’epidemia ebbe anche l’effetto di far ritirare gli spartani e i loro alleati: spaventati dalla vista dei roghi (con i quali venivano bruciati vesti, stracci e tutto ciò che poteva favorire il contagio), pensarono bene di ritirare le truppe nel timore di contrarre il morbo. La puntuale descrizione della peste da parte di Tucidide si accompagna significativamente alla profonda delusione che intride la constatazione che dopo Pericle, sopraffatto dalla peste, Atene fu governata da capi non all’altezza del grande militare, tanto da provocarne il declino.

Lo storico elenca i sintomi legati al morbo: starnuti, raucedine, violenti accessi di tosse, nonché lancinanti dolori allo stomaco. Si poteva diventare ciechi. C’era anche chi guariva, ma poi veniva colpito da amnesia, tanto da non riconoscere affatto la propria famiglia. Scrive Tucidide: «Ma di tutto il male la cosa più terrificante era la demoralizzazione da cui venivano prese le persone quando si accorgevano di essere stati contagiati». La peste dà agio allo storico di elaborare una riflessione di carattere etico. Nella patria di Fidia e di Platone, nella città faro della democrazia e che aspirava ad assurgere a simbolo della democrazia, il pernicioso evento aveva fatto sì che, come reazione, numerosi cittadini rompessero ogni argine e violassero il rispetto di ogni buona creanza, voltando le spalle a ogni forma urbana di vivere civile.

In seguito all’attecchire del morbo dilaga — denuncia Tucidide — «la sfrontatezza» di fronte alla legge. «Molti osavano ciò che prima stavano attenti a fare» evidenzia lo storico. Era come se il morbo avesse conferito loro il diritto, vista l’irrimediabile tragicità della situazione, di venire meno ai doveri che si confanno al cittadino onesto e retto.

Ma al contempo Tucidide non manca di celebrare le gesta di coloro, anzitutto i medici, che si prodigarono — pur con i modestissimi mezzi a loro disposizione — nel tentativo di guarire i malati, o almeno di lenire le loro sofferenze. Fino, come detto, al sacrificio di sé stessi. A distanza di tanti secoli, alla luce delle drammatiche conseguenze inferte dal coronavirus, l’esempio dei medici, e infermieri, dall’antichità ai giorni nostri, rimane immutato. Nobile, commovente. Degno della lode più alta.

di Gabriele Nicolò