Racconto - La parola dell'anno

Perché tu possa raccontare

Marc Chagall, «Io e il mio villaggio» (1911, particolare)
22 aprile 2020

Apologia della narrazione a due voci: Johann Baptist Metz e Papa Francesco


Nel 1973 il teologo Johann Baptist Metz (1928-2019) ha firmato una Breve apologia del narrare; il testo è divenuto, da parte cattolica, il manifesto di ciò che si è convenuto di chiamare teologia narrativa. In questa arringa il teologo tedesco chiama in causa Blaise Pascal, che nel suo Mémorial (1654) esclama: «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti». Di fronte al «Dio della ragione puramente argomentativa, il Dio dei filosofi», Johann Baptist Metz intende, come Pascal, rendere giustizia al «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio narrato». Da parte protestante, Karl Barth ha a sua volta sostenuto l’idea della narrazione come luogo obbligato della teologia, dichiarando in particolare: Chi è e che cos’è Gesù Cristo, può essere solo raccontato e non colto e definito come sistema». Nel suo intervento del 24 gennaio scorso, in occasione della giornata mondiale delle comunicazioni sociali, Papa Francesco si è inscritto in questa tradizione e l’ha portata più avanti. Fin dalle sue origini, afferma il Papa, la fede cristiana è legata alla narrazione. È un dato simbolico che dobbiamo nuovamente esplorare, sia nell’intelligenza della fede sia nella sua comunicazione.

La vita si fa storia

Il titolo dell’intervento papale, La vita si fa storia, annuncia la dimensione esistenziale, vitale, del rapporto con il racconto. Un sottotitolo dà a questa prospettiva degli orizzonti biblici: «Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria» (Esodo 10, 2). Così dice Dio a Mosè quando lo invia a compiere segni prodigiosi davanti al Faraone. Quei segni sono destinati, certo, a convincere il re d’Egitto, dal cuore indurito, ma sono anche votati, fin dall’inizio, alla memoria narrativa del popolo: «Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria di tuo figlio e del figlio di tuo figlio i segni che ho compiuti: così saprete che io sono il Signore!». Papa Francesco ha così commentato: «L’esperienza dell’Esodo ci insegna che la conoscenza di Dio si trasmette soprattutto raccontando, di generazione in generazione, come Egli continua a farsi presente. Il Dio della vita si comunica raccontando la vita».

I segni che si compirono nei giorni della fuga dall’Egitto continuano ad agire nella vita del popolo che li racconta. Il rapporto tra vita e racconto si verifica nel Nuovo Testamento, sia nella macro-narrazione dei Vangeli, sia in ognuna delle loro micro-narrazioni: «Gesù stesso parlava di Dio non con discorsi astratti, ma con le parabole, brevi narrazioni, tratte dalla vita di tutti i giorni. Qui la vita si fa storia e poi, per l’ascoltatore, la storia si fa vita: quella narrazione entra nella vita di chi l’ascolta e la trasforma».

Storie che ci aiutino

Il riflesso narrativo dell’uomo, spiega Papa Francesco, ha radici antropologiche profonde. «L’uomo è un essere narrante (…) I racconti ci segnano, plasmano le nostre convinzioni e i nostri comportamenti, possono aiutarci a capire e a dire chi siamo». Ci sono però racconti e racconti: non tutte le storie raccontate contribuiscono all’edificazione dell’umanità in noi. Anche su questo punto, afferma Papa Francesco, occorre compiere un’opera di discernimento. Il medium della narrazione può essere utilizzato a fini perversi. Secondo la Bibbia, così è accaduto in Genesi 3 nell’intervento del serpente, che fa balenare un scenario ingannevole: «Se mangerai, diventerai come Dio»; «se possederai, diventerai, raggiungerai…» sussurra ancora oggi chi si serve del cosiddetto storytelling per scopi strumentali». Di fronte a queste «storie distruttive e provocatorie, che logorano e spezzano i fili fragili della convivenza», dobbiamo raddoppiare la saggezza: «Abbiamo bisogno di pazienza e discernimento per riscoprire storie che ci aiutino a non perdere il filo tra le tante lacerazioni dell’oggi; storie che riportino alla luce la verità di quel che siamo, anche nell’eroicità ignorata del quotidiano». Storie che ci aiutino. Nella sua apologia, Johann Baptist Metz illustra il potere salvifico delle storie per mezzo di una storia chassidica: «A un rabbino il cui nonno era stato un discepolo di Baal-Shem, fu chiesto di raccontare una storia. “Una storia — raccontò il rabbino — va raccontata in modo che sia essa stessa un aiuto”. E raccontò: “Mio nonno era storpio. Una volta gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro. Allora raccontò come il santo Baal-Shem solesse saltellare e danzare mentre pregava. Mio nonno si alzò e raccontò, e il racconto lo trasportò tanto che ebbe bisogno di mostrare saltellando e danzando come facesse il maestro. Da quel momento guarì. Così vanno raccontate le storie».

Lo stesso si verifica, in modo del tutto singolare, nei racconti evangelici. «Mentre ci informano su Gesù — scrive il Papa — ci “performano” a Gesù, ci conformano a Lui: il Vangelo chiede al lettore di partecipare alla stessa fede per condividere la stessa vita». Qui è citato Benedetto XVI che nella sua enciclica Spe salvi al numero 2, scrive: «Il messaggio cristiano non era solo informativo, ma performativo. Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita».

Intessuti di storie

Le storie ben raccontate — e prima di tutto quelle della Bibbia — sono spesso scandite da parole-chiavi. Anche l’intervento di Papa Francesco lo è. Partendo dall’etimologia del termine “testo”, il Papa enuncia in molteplici modi la pertinenza del verbo “tessere” quando si riferisce a storie raccontate. L’uomo è l’essere tessuto di storie: «L’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità (vedi Genesi 3, 21), ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi, di “rivestirsi” di storie per custodire la propria vita. Non tessiamo solo abiti, ma anche racconti». Basandosi sulle parole del Salmo 139, «mi hai tessuto nel seno di mia madre», il Papa aggiunge che questa tessitura si prolunga nel corso della vita: «Non siamo nati compiuti, ma abbiamo bisogno di essere costantemente “tessuti” e “ricamati”». E noi lo siamo grazie alle storie che ci attraversano e che ritessiamo incessantemente, «quando tessiamo di misericordia le trame dei nostri giorni». Quando questa tessitura si fa attraverso le storie della Bibbia e del Vangelo, il divino s’intesse con l’umano: «Dio si è personalmente intessuto nella nostra umanità, dandoci così un nuovo modo di tessere le nostre storie».

La metafora della tessitura è preziosa; ci conduce al senso biblico della parola. Nelle Scritture la parola non è la traduzione di un concetto; essa si dispiega come un tessuto, un mantello o una tenda. Tessuto, la parola è estensibile, capace di accogliere in sé situazioni sempre nuove e destinatari sempre nuovi. Essa è, in un certo modo, una “parola-tenda”, evocata dall’imperativo del profeta in Isaia 54, 2: «Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti».

Nei panni dei discepoli

L’estensibilità della parola biblica è particolarmente impressionante nel contesto narrativo. Il finale del vangelo di Matteo è eloquente in materia. Al termine del racconto, il Risorto dà ai discepoli (mathētai) un ordine significativo: «Fate discepoli (mathēteusate) tutte le nazioni» (Matteo 28, 19). Questo imperativo fa scattare una dinamica sottile e potente nella recezione del racconto. L’ordine di Gesù infatti porta a ripartire da capo nella lettura, rinviando i destinatari futuri del vangelo all’inizio del racconto. I destinatari in questione sono così chiamati a immedesimarsi ai mathētai (i “discepoli”) del racconto, percorrendo con loro tutte le tappe dell’iniziazione evangelica. Il lettore è spinto a ingranare la figura del mathētēs, del discepolo, nella sua “marcia”, che è quella della sequela di Gesù. In questo il racconto evangelico rivela la sua dinamica nucleare, al contempo centripeta e centrifuga. Centripeta, nel modo in cui il racconto riconduce sempre alla «porta stretta», quella della sequela di Gesù come Bildungsroman del discepolo e dell’essere discepoli insieme. Centrifuga, nel modo in cui il racconto si proietta «in periferia», su tutti i confini geografici e temporali della storia, «fino alla fine del mondo» (Matteo 28, 20). Il racconto non smette di allargare il suo telaio, integrando nuovi destinatari nel suo dramma salvifico.

Metafore narrative

Dietro il recente testo di Papa Francesco si riconosce il narratore che lui è. Il suo insegnamento adotta regolarmente il ritmo delle storie bibliche, che sia la storia di Giona o quella del vangelo di Marco (nelle omelie pronunciate a Casa Santa Marta).

In altri casi, il magistero di Papa Francesco è quello delle metafore. Molte di esse hanno una forza propriamente narrativa. Dire del pastore che ha l’odore delle sue pecore significa quindi richiamare alla memoria la storia raccontata da Gesù in Luca 15, 3-7, a proposito della pecora ritrovata dal pastore: «Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle».

Lo stesso vale per la metafora della Chiesa samaritana. In diverse occasioni, Papa Francesco ha augurato che la Chiesa sia una Chiesa samaritana. Questo augurio è infatti il punto di arrivo di una tradizione significativa. La matrice ne è, evidentemente, il testo lucano, la parabola con la quale Gesù risponde al levita che gli chiedeva «Chi è il mio prossimo?» (Luca 10, 25-37). La storia ha trovato un’attualità nuova nel concilio Vaticano II, nell’ultima allocuzione di Paolo VI ai padri conciliari (7 dicembre 1965): «L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso». Il Documento di Aparecida (2007) ha poi forgiato l’espressione «Chiesa samaritana»: «La misericordia della “Chiesa samaritana” dunque tende a curare le ferite di chi è o si sente scartato o escluso perché l’uomo possa vivere in questa vita felice, integrale, piena, una “vita in abbondanza”». Il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez ha chiosato l’espressione: la simpatia “samaritana” è quella di una Chiesa che, in un impegno di servizio, «si è fatta “prossima” dell’altro, ferito, spogliato, senza aiuto». La metafora riproposta da Papa Francesco acquisisce così una dinamica totalmente narrativa. Augurare una «Chiesa samaritana» significa far scattare una sequenza narrativa: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico…» (Luca 10, 25-37). E questo fino alla domanda finale di Gesù: «“Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?” Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ così”» (vv. 36-37).

Memoria passionis

Le due voci di Johann Baptist Metz e di Papa Francesco ci preparano al tempo più narrativo dell’anno liturgico, il tempo pasquale. A partire dal Giovedì santo il passato remoto, il tempo per eccellenza della storia raccontata, darà il tono: «Io, infatti — scrive Paolo ai Corinzi — ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse…» (1 Corinzi 11, 23-24). Lo stesso vale per il racconto della passione che segue: «Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (Marco 14, 26). Il passato remoto da una parte canonizza l’evento della salvezza, in quanto «una volta per tutte», ma l’offre anche a «tutte le volte» del nostro ritorno alla fede.

Per Johann Baptist Metz il racconto ha una virtù incomparabile all’interno dei discorsi della fede, quella di prendere sul serio la storia della sofferenza. Una teologia della salvezza che intende rispettare la storia della sofferenza non può essere semplicemente speculativa, scrive; è sostanzialmente «commemorativa e narrativa».

Essa è costruita narrativamente intorno alla memoria della sofferenza e della maniera in cui Dio la accompagna e la attraversa; è memoria passionis. Nella prova che la famiglia umana attraversa in questi mesi, ogni racconto di contagio, di malattia, di morte e di guarigione è un racconto che conta — a livello più personale, a livello delle comunità nazionali, a livello dell’intera umanità.

Nel corso del tempo pasquale, ognuno di questi racconti incontrerà la memoria narrativa dei cristiani e della Chiesa. «Gesù, portando la croce, si avviò…» (Giovanni 19, 17); «Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori» (Isaia 53, 4-5).

di Jean-Pierre Sonnet