Enea, il silenzio, la contemplazione e Papa Francesco

Nel laboratorio della sconfitta

Federico Barocci, «La fuga di Enea» (1598, particolare)
18 aprile 2020

«Il Papa confinato»: così il titolo dell’intervista di Papa Francesco con Austen Ivereigh pubblicata lo scorso 8 aprile sulla «Civiltà Cattolica». È una conversazione toccante, inedita, in cui il Papa racconta la sua quarantena (il lavoro digitale come i turni pranzo a Santa Marta), le sue preoccupazioni (il futuro “tragico e doloroso”), persino le sue tentazioni (la lotta contro l’egoismo).

Sono rimasto molto colpito da due passi dell’intervista che ricordano parole in qualche modo “esiliate” dalle nostre vite: la sconfitta e la contemplazione. Parole che per noi nascondono spine. La sconfitta è quasi un marchio di Caino per il nostro tempo assetato di consenso. Idem per la contemplazione, che sentiamo come un fastidioso richiamo a fermarci, a tirare il freno nelle giornate vorticose orientate alla “prestazione”. Eppure, contemplare la sconfitta ci aiuta a essere più umani.

Tra le riflessioni più intense sulla sconfitta c’è quella del poeta Adam Zagajewski (Leopoli, 1945): «Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta, / le amicizie si fanno più profonde, / l’amore solleva attento il capo. / Perfino le cose diventano pure. / I rondoni danzano nell’aria, / a loro agio nell’abisso. / Tremano le foglie dei pioppi, / solo il vento è immoto. / Le sagome cupe dei nemici si stagliano / sullo sfondo chiaro della speranza. Cresce / il coraggio. Loro, diciamo parlando di loro, noi, di noi, / tu, di me. Il tè amaro ha il sapore / di profezie bibliche. Purché / non ci sorprenda la vittoria».

È il testo d’apertura della raccolta Dalla vita degli oggetti (Adelphi, 2012): una poesia limpida e carica di senso. «Le amicizie si fanno più profonde, / l’amore solleva attento il capo»: credo che ognuno di noi abbia sperimentato la verità di questi due versi incontrando il conforto di un amico in un ospedale o un lungo abbraccio silenzioso nel tempo del lutto.

Chi passa per il “laboratorio” della sconfitta tocca in carne viva la realtà. Diventa più attento. La sfida per ognuno è come mettere a frutto la sconfitta. Scrive il Papa: «La creatività del cristiano deve manifestarsi nell’aprire orizzonti nuovi, nell’aprire finestre, nell’aprire trascendenza verso Dio e verso gli uomini, e deve ridimensionarsi in casa. Non è facile stare chiusi in casa. Mi viene in mente in un verso dell’Eneide che, nel contesto della sconfitta, dà il consiglio di non abbassare le braccia. Preparatevi a tempi migliori, perché in quel momento questo ci aiuterà a ricordare le cose che sono successe ora. Abbiate cura di voi per un futuro che verrà. E quando questo futuro verrà, vi farà bene ricordare ciò che è accaduto».

Papa Francesco ha citato Enea dopo la caduta di Troia. Di fronte a questo celebre “sconfitto” si aprivano due strade: la possibilità, tra le lacrime, di rinunciare a vivere e quella opposta di fuggire sui monti in cerca di salvezza. Il Papa ha ricordato il verso latino: Cessi, et sublato montem genitore petivi, «mi rassegnai e sollevato il padre mi diressi sui monti».

Ognuno di noi è di fronte al bivio di Enea. E per scegliere il sentiero giusto è importante fermarsi, riscoprire la contemplazione. Forse associamo a questa parola persone che ci sembrano lontane dalla realtà (e non lo sono). Magari mistici o eremiti fuori dal tempo (e invece spesso sono le antenne più sensibili del nostro tempo).

In realtà, contemplazione significa trovare un riparo di silenzio nelle nostre giornate. Una Terra promessa per fare un po’ di ordine nel cuore. Ristabilire le giuste gerarchie. Riscoprire il silenzio è difficile, ma non impossibile. Qualche anno fa ebbe successo Il silenzio (Einaudi, 2017) dell’esploratore/editore Erling Kagge: un utilissimo vademecum per ritrovare salutari pause nella nostra vita. Tra l’altro, con un incipit ideale per la nostra quarantena: «Non sempre posso fare una passeggiata, arrampicare, o andare in barca a vela. Quindi ho imparato a chiudere fuori il mondo. Ci ho impiegato parecchio tempo. Solo quando ho capito che ho un intimo bisogno di silenzio, ho potuto mettermi alla sua ricerca; nei miei recessi più intimi, sotto la cacofonia dei rumori del traffico e dei pensieri, della musica e dei macchinari, degli iPhone e degli spazzaneve, lui era lì che mi aspettava».

Già, il silenzio come primo passo verso la contemplazione: voglio ricordare la vicenda di Pierluigi Cappello (1967-2017), poeta grande, andato via troppo presto. Conobbe da vicino la “sconfitta”: un incidente in moto che falciò i suoi sogni di ragazzo (era un sedicenne che correva i cento metri in undici secondi e quattro e che voleva diventare pilota). Nei lunghissimi mesi del suo calvario in ospedale (ma rimase paralizzato per la vita) trovò conforto nella lettura, in particolare in Moby Dick. E così scriveva in Questa libertà (Rizzoli, 2013) il suo memoir autobiografico che è una sorta di testamento spirituale: «In questo libro ho cercato di dire come una libertà, la mia, sia germinata dai luoghi vissuti da bambino e poi abbia preso il volo dal mio incontro con la lettura. Non credo esista un mezzo di trasporto più veloce dell’immaginazione; così come non penso esista un propellente più efficace di questa per spingere la nostra libertà al di fuori di noi stessi. Un uomo seduto che legge non sta fermo; anzi: quanto più sta fermo e concentrato nella lettura, tanto più è alle prese con un viaggio nelle profondità cosmiche di sé stesso, più veloce delle navi spaziali immaginate da Stephen Hawking. Come se la velocità si fosse cristallizzata in assenza di movimento».

Il silenzio e la lettura possono essere l’inizio del sentiero per la contemplazione. Per aiutarci a “leggere” le sconfitte. Per lasciarci indietro le macerie e avviarci come Enea verso le montagne (magari portando qualcuno sulle spalle).

di Alessandro Rivali