Le Università pontificie al tempo del coronavirus

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24 aprile 2020

Le Università pontificie romane condividono con tutti gli atenei di tutto il mondo le grandi difficoltà e il repentino interrompersi delle loro normali attività a seguito della pandemia da coronavirus.

Opportunamente ogni istituzione ha cercato di rispondere a questo radicale cambio di scenario in maniera attenta, senza lesinare energie e con indubbi buoni risultati; nonostante i repentini cambiamenti accaduti è prevedibile che il presente anno accademico si concluda in modo abbastanza ordinato, senza danni irreparabili: non sarà un anno “perso” né per gli studenti né per i docenti.

Lo sguardo si fa più preoccupato e incerto se si guarda al futuro prossimo: l’anno accademico che inizierà con l’autunno.

Due ordini di grandezze sono probabilmente destinati a ridursi in maniera molto significativa: la disponibilità di mezzi economici e il numero degli studenti. È prevedibile che un numero rilevante di già iscritti non prosegua gli studi, mentre una vera incognita è quanti saranno i nuovi, tenendo conto che le limitazioni agli spostamenti potranno rimanere in vigore per un periodo non breve, senza dimenticare che un generale impoverimento peserà anche sulle diocesi e sugli ordini religiosi. Farsi carico di come tutti questi fattori incideranno sulla vita delle Università pontificie di Roma non è semplice, ma conviene da subito impegnarsi in riflessioni e progetti, per evitare di prendere decisioni affrettate, dettate da urgenze contingenti. Bisogna fare di tutto per non lasciarsi travolgere dalle circostanze e provare per quanto possibile a governarle e non subirle.

L’atteggiamento più miope sarebbe preoccuparsi solamente dei problemi economici — di sicuro da non sottostimare — e procedere a “tagli lineari”, orientati semplicemente a fare sopravvivere per quanto possibile una configurazione ridotta dell’esistente prima del coronavirus. Muoversi in questa direzione vorrebbe dire non rendersi conto del cambio di passo cui la pandemia sollecita inequivocabilmente, ma non nella direzione di un lento e triste declino del servizio alla Chiesa e al mondo, peculiare delle comunità accademiche. Se l’attuale circostanza può essere interpretata come un fattore scatenante di un complesso passaggio d’epoca, sarebbe mortificante registrare l’assenza del contributo di un sapere teologico e, più ampiamente, ecclesiale.

Al contrario: questo è il tempo di un rinnovato, forte investimento sulla qualità della ricerca e della didattica, usufruendo di tutte le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, ma senza dimenticare che — in presenza o online — la proposta accademica di un’università dipende dal profilo del corpo docente e dalla sua capacità di elaborare e trasmettere sistematicamente un sapere.

Questo richiede che si approfondisca bene il profilo e il metodo peculiari del cosiddetto distance learning che non può essere ridotto a un puro strumento di supplenza all’impossibilità di una didattica in presenza (cfr. D.E. Viganò, La scuola a distanza ai tempi del coronavirus, «L’Osservatore Romano», 27 marzo 2020, 4). Inoltre è indispensabile che, pur facendo attenzione a un impiego oculato delle risorse, si continui a promuovere la formazione di nuovi docenti secondo le procedure consuete di reclutamento attraverso forme di collaborazione, anche a tempo determinato.

In una prospettiva più ampia le sfide del presente possono essere un’occasione propizia per recepire adeguatamente le indicazione preziose offerte da Veritatis gaudium, soprattutto quando viene sottolineato lo stretto collegamento del sistema degli studi ecclesiastici alla missione evangelizzatrice della Chiesa. Il tempo della pandemia sta documentando quanto può essere feconda e autorevole la parola che la comunità ecclesiale, alimentata dalla testimonianza di Papa Francesco, può rivolgere agli uomini, provati e tante volte smarriti davanti a quanto sta accadendo. Sviluppare criticamente un percorso riflessivo su i temi e i problemi oggi al centro dell’attenzione è un compito che l’accademia non può eludere, pena la sua irrilevanza ecclesiale e sociale.

Si potrebbe dire che si affaccia un “tempo favorevole” in cui le nostre Università sono sfidate a mettersi in piena sintonia con il richiamo a una «conversione pastorale» e alla «trasformazione missionaria» (Evangelii gaudium) della loro identità. A questo proposito il prevedibile ridursi del numero degli studenti tra preti e seminaristi può diventare un’occasione per immaginare proposte accademiche sempre meno “clericali”, capaci di intercettare interessi ed esigenze di una platea molto più ampia e variegata: sarà necessario immaginare percorsi di studio attenti a questi nuovi possibili interlocutori.

Da ultimo non si dovrà dimenticare un tratto peculiare delle Università pontificie romane: esse offrono una possibilità unica di «imparare Roma», come amava dire san Giovanni Paolo II. La dimensione comunitaria è un tratto peculiare dello studio accademico e lo è in modo affatto speciale per quello offerto dalla Chiesa. Le nuove tecnologie che suppliscono all’impossibilità di un insegnamento in presenza sono una grande opportunità, ma non possono essere usate in modo superficiale, senza mantenere viva e operante la tensione a custodire e alimentare una comunità di docenti e studenti così come le circostanze rendono possibile.

«Imparare Roma» è un’occasione unica che conduce a una soddisfacente formazione accademica, curata al meglio della qualità, parte integrante dell’opera della Chiesa nel mondo, circostanza particolarmente favorevole a «imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa “in uscita”» (Veritatis gaudium, 3).

di Gilfredo Marengo
Vice preside del Pontificio istituto teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del matrimonio e della famiglia