Il brusco «ritorno alla realtà» portato dal coronavirus nell’ultimo libro di don Julián Carrón

La vertigine del presente

Pontormo, «Il Trasporto di Cristo» (1526-1528, particolare)
30 aprile 2020

Poche cose mettono più ansia della frase «abbiamo tutto sotto controllo» ripetuta in automatico, come un mantra; anche in tempi normali, non soltanto durante un’epidemia virale dalle dimensioni planetarie. Forse perché ne percepiamo oscuramente, confusamente tutta la menzogna. E tutta la (pericolosa) astrazione. No, non abbiamo mai, davvero, tutto sotto controllo; solo una presunzione ridicolmente sicura di se stessa può continuare a farcelo pensare.

La sproporzione tra l’uomo e il cosmo, tra l’uomo e il mistero della natura, tra l’uomo e il suo Creatore, è la vera protagonista di questo tempo di angoscia, segnato da vertici e abissi di generosità e paura, puro terrore e gesti di inspiegabile amore che solo la grande arte riesce a descrivere, come l’inquietante bellezza del Miserere di Allegri, o lo struggente abbandono al mistero della morte della Pietà Rondanini. «Ci hai fatto bere vino da vertigini» recita il salmo 59, fotografando, a millenni di distanza, la situazione che stiamo vivendo.

Quello che possiamo fare, adesso, nel pieno della tempesta, è non sottrarci a questa vertigine; da qui il titolo dell’ultimo libro intervista di Alberto Savorana a don Julián Carrón, il presidente della Fraternità di Cl, da poco uscito in formato ebook, Il risveglio dell’umano. Riflessioni da un tempo vertiginoso (Bur-Rizzoli, 2020, euro 3,99). Che cosa possiamo imparare dall’“ottovolante” emotivo ed esistenziale della pandemia? La consapevolezza della fragilità umana può diventare un antidoto al delirio di onnipotenza, un’occasione di risveglio, uno strumento capace di «tirarci fuori dal torpore in cui viviamo di solito» sottolinea Carrón rispondendo alle domande di Savorana. Per dirla con l’asciutta genialità della Arendt, ogni crisi costringe a tornare alle domande.

«Il male non è che i sapienti non vedono la risposta — stavolta ad essere citata è una delle più luminose, sorprendenti capriole logiche di G.K. Chesterton — ma che non vedono l’enigma». La condizione per vedere la risposta — continua Carrón lungo tutto il percorso di questo agile ma densissimo libro, pieno di esempi tratti dalla vita reale, stralci di mail, domande e risposte tratte da dialoghi con studenti, amici, madri di famiglia, gente “normale” che parla della propria esperienza quotidiana — è vedere l’enigma. Questo implica una certa postura di fronte alla realtà, la disponibilità a lasciarsi interpellare e a lasciarsi cambiare. Insomma, è un problema di sguardo sul reale. Paradossalmente, la situazione di isolamento in cui ci siamo venuti a trovare è diventata l’occasione di un grande dialogo a distanza.

Chiunque, in un modo o nell’altro, ha dovuto misurarsi con un dato imprevisto che ha fatto irruzione nella sua vita quotidiana. Quali risposte sono all’altezza della situazione? La realtà è entrata nelle nostre vite senza chiedere permesso, e questo ha fatto riemergere in tutta la sua portata quell’esigenza di capire che chiamiamo ragione. «Naturalmente ragione non vuol dire guardare le cose dal buco della serratura della nostra misura razionalista. Ragione e razionalismo sono due cose diverse» scrive Antonio Polito nella recensione all’ebook sul «Corriere della Sera» del 30 aprile, non a caso illustrata dalla surreale ironia di The Man who Measures the Clouds di Jan Fabre.

La pretesa di una misura umana che detta legge a se stessa è il grande inganno novecentesco smascherato dal virus. «Non vogliamo più — scrive un lettore in un forum di discussione online sul libro — restare prigionieri della distrazione che ci consuma». Ma come si esce dalla “bolla” di finta realtà che ci tiene prigionieri? Come si spacca quel soffitto di vetro che non siamo più in grado di vedere ma ci separa dal Cielo (con la “c” minuscola, per chi non crede)?

Solo l’impatto — consapevolmente accettato — con la realtà può spalancare nuovamente la ragione. Ed è sempre un contraccolpo, un essere colpiti, a far sì che i nostri occhi si aprano: la conoscenza implica nel suo sorgere e nel suo svilupparsi una dimensione affettiva che rimanda alla sua origine. Quanto più una realtà ci colpisce e ci interessa, tanto più lo sguardo della ragione si schiude, si protende, si acuisce, non si accontenta di soluzioni a buon mercato. Il sentimento che la realtà suscita — stupore, paura, curiosità — è un fattore essenziale alla visione, è una “lente” che avvicina l’oggetto.

Ma accettare l’impatto con la realtà non è facile; in momenti come questi viene allo scoperto il cammino di maturazione che ciascuno personalmente e insieme agli altri ha fatto, la coscienza di sé che ha guadagnato, «la capacità o incapacità di affrontare la vita che si trova tra le mani. Le nostre piccole o grandi ideologie, le nostre convinzioni, perfino quelle religiose, sono messe alla prova. La crosta delle false sicurezze mostra le sue crepe». In questo senso, si riparte dall’“io” di ciascuno. Vengono meno tante delle false certezze che hanno dominato il Novecento; con Nietzsche, ci eravamo convinti che non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Uno slogan dato per scontato, che ha resistito per decenni come una verità indiscutibile, in situazioni come questa mostra tutta la sua debolezza. La realtà, che sembrava qualcosa di superato, è testarda e si sta riprendendo la scena. Davanti ai nostri occhi c’è qualcosa di più che delle interpretazioni: ci sono dei fatti ostinati, che chiedono di essere considerati e anche adeguatamente interpretati. Il nichilismo è — almeno in questo senso — messo alle corde. E tutto questo cambia anche il rapporto con Dio. «L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale» scrive don Giussani nel suo libro più noto, Il senso religioso. La sua è una concezione dell’avvenimento cristiano che porta a riconoscere qualsiasi circostanza come chiamata, cioè come vocazione. Ben consapevole di quale vertiginoso, permanente senso di sproporzione questo introduca nella vita: «L’uomo, la vita razionale dell’uomo dovrebbe essere sospesa all’istante, sospesa in ogni istante a questo segno apparentemente così volubile, così casuale che sono le circostanze attraverso le quali l’ignoto “signore” mi trascina, mi provoca al suo disegno. E dir “sì” a ogni istante senza vedere niente, semplicemente aderendo alla pressione delle occasioni. È una posizione vertiginosa», un vertiginoso essere sospesi «a questo segno apparentemente così volubile, così casuale che sono le circostanze». Eppure — insiste Giussani — questo è l’unico atteggiamento razionale, perché è proprio attraverso quelle circostanze che il Mistero interpella, chiama a collaborare al suo disegno misterioso.

di Silvia Guidi