Il 29 aprile di quarant’anni fa moriva il regista britannico

La rivoluzione di Alfred Hitchcock

Cary Grant nella scena da antologia in «Intrigo internazionale» (1959)
28 aprile 2020

Alfred Hitchcock ha contribuito in maniera determinante a dimostrare come si possa fare grande cinema, cinema d’autore, pur partendo dagli schemi di un genere. Sono stati probabilmente i suoi film ad abbattere definitivamente la barriera fra opera e prodotto commerciale, mettendo in crisi un mondo della critica che infatti, nei suoi confronti, passò improvvisamente dall’indifferenza all’entusiasmo dando l’impressione di aver perso i tradizionali metri di giudizio.

Più nel dettaglio, Hitchcock ha dimostrato come nel cinema il concetto di autorialità non sia legato necessariamente a poetiche profonde — che pure nella fase più adulta della sua carriera sarà capace di esprimere — ma anche alla riconoscibilità di uno stile registico. Un principio che saprà far trapelare con forza crescente procedendo verso un modo di raccontare sempre più legato all’immagine che non alla dimensione narrativa. Fino ad arrivare a un cinema quasi astratto, “puro” coma amava definirlo lui, che farà assomigliare la sua arte a quella di un pittore. Non è tanto importante un soggetto, ma come si esprime. Con i suoi thriller, il regista britannico ha infatti saputo andare negli strati profondi della macchina cinematografica arrivando ai gangli che ne regolano il funzionamento tecnico-espressivo, nonché il rapporto fra la rappresentazione e le emozioni dello spettatore.

Dopo aver ricevuto un fondamentale endorsement da parte dei lungimiranti critici francesi, a partire dalla metà degli anni cinquanta — dopo decenni di carriera e decine di film realizzati — prenderà coscienza del suo status di autore moderno, paradossalmente più nuovo di quanto non fosse a inizio carriera, perfettamente in linea con il proprio tempo, e anzi precursore di quell’epoca in cui, grazie a Warhol o i Beatles, sarà ormai assodato come si possa fare arte anche passando attraverso il mondo del pop.

Dei film girati in patria, nella prima metà della carriera, i film muti sono forse quelli più interessanti. The Lodger (1927) o Downhill (1927) sono già ottimi esempi di cinema hitchcockiano, che in virtù di una dimensione visiva chiamata a sopperire alla mancanza di dialoghi, appaiono come i prototipi delle opere più mature. Con l’arrivo del sonoro, Hitchcock si dimostra un fine orchestratore di trame fra il mystery e lo spionaggio. The 39 Steps (1935), Sabotage (1936) e The Lady Vanishes (1938) sono film di un certo livello che scontano però un ritmo piuttosto statico e oggi appaiono irrimediabilmente datati. La trasferta americana in tal senso segnerà una cesura evidente. L’incontro con collaboratori dal talento eccezionale — fra cui il musicista Bernard Hermann, il montatore George Tomasini, il direttore della fotografia Robert Burks, gli scenografi Hal Pereira e George Milo — e più in generale con gli altissimi standard tecnici e professionali di Hollywood, rappresenterà per Hitchcock una svolta fondamentale.

L’esordio americano è già folgorante. Rebecca (1940) è un grande film dai retaggi gotici e con una curiosa miscela di generi iniziale che testimonia il gusto del regista per quello che chiamerà il MacGuffin, ovvero per il pretesto narrativo adottato solo per poi far virare il racconto verso tutt’altri orizzonti, e farsi quindi beffe delle aspettative dello spettatore.

È solo l’inizio di una marcia trionfale di capolavori del thriller. Suspicion (1941), Shadow of a Doubt (1943), Lifeboat (1944), Spellbound (1945), Notorious (1946), The Paradine Case (1947), Rope (1948), Strangers on a Train (1951), Dial M for Murder (1954), Rear Window (1954), The Trouble with Harry (1955), To Catch a Thief (1955), The Wrong Man (1956), The Man Who Knew Too Much (1956). Il regista consolida la pratica di servirsi di trasposizioni di racconti e romanzi magari non eccelsi ma firmati da esperti del genere. Un modo per assicurarsi un soggetto solido ma non particolarmente vincolante, su cui poter costruire una narrazione squisitamente visiva. In questo modo, fra l’altro, Hitchcock abbatterà un altro luogo comune, quello secondo cui, in caso di trasposizioni, «il libro è sempre meglio del film».

Il regista sviluppa una personale concezione della suspense, che accantona il semplicistico concetto di whodunit (ovvero il finale a sorpresa) tipico del mystery anglosassone, per far prevalere l’identificazione fra lo spettatore e il protagonista, quasi sempre un innocente finito in un intrigo più grande di lui. Situazioni paradossali che conciliano un po’ di Kafka con il tema di un senso di colpa atavico, frutto della formazione cattolica del regista. Ma a essere fortemente riconoscibile, come accennato, sarà soprattutto lo stile di regia. La mano di Hitchcock su un film è spesso riconoscibile già da un fermo immagine, perché è in pratica una sua invenzione quella di condensare gran parte del significato di un racconto in singole inquadrature o singoli movimenti di macchina. La cinepresa che piomba sul dettaglio sempre più macroscopico di una chiave in Notorious, la panoramica che passa dalla tranquillità borghese di una strada all’omicidio che si consuma in un appartamento in Rope, la testa dello stalker che rimane ferma in direzione della sua vittima mentre tutti la muovono durante una partita di tennis in Strangers on a Train, lo zoom in avanti con la cinepresa che va all’indietro (e viceversa) nella tromba delle scale in Vertigo. Non deve stupire, dunque, che alcuni fra i più importanti film hitchcockiani si svolgano in poche location, se non addirittura in un unico ambiente. Non si tratta affatto di teatro filmato. La location unica dà modo al regista di esercitarsi in uno dei suoi talenti maggiori, ovvero cesellare il singolo fotogramma per farlo diventare un microcosmo a sé stante. Non a caso, quando Brian De Palma si cimenterà in thriller dichiaratamente hitchcockiani, si servirà spesso dello split-screen, un modo per richiamare la concentrazione di informazioni in un unico istante tipica del modello di riferimento. Se dunque l’incontro di Hitchcock con Hollywood sarà fondamentale, il suo modo di raccontare, però, diventerà via via sempre meno hollywoodiano, in virtù degli accenti posti più sulle singole inquadrature che sul montaggio nel suo complesso. E sarà proprio quest’ultima caratteristica ad attirare particolarmente l’attenzione dei critici e futuri registi francesi, i quali vi intravedranno il viatico per un cinema che sia poesia più che prosa.

Già a partire da Rear Window, in ogni caso, si registra un ulteriore salto di qualità. Truffaut noterà infatti che il cortile in cui si svolge la vicenda non è solo il teatro di un delitto, ma un mondo in nuce in cui, attraverso mille piccoli dettagli, si descrive poeticamente la fisiologia di una giornata, la vita stessa. Già qui è dunque evidente che Hitchcock sta gradualmente allargando i propri orizzonti, pur rimanendo fedele a un cinema che è anche intrattenimento.

Con Vertigo (1958), il salto di qualità diventa un volo acrobatico. Il film non è solo una vetta del thriller, ma un capolavoro tout court, una metafora quasi buñueliana sull’amore frustrato.

Pur senza servirsi esplicitamente del surrealismo, Hitchcock mette in scena un dramma esistenziale in cui il confine fra realtà e sogno si fa labile, aprendo già la strada a quelli che saranno gli ubriacanti deliri lynchiani.

Dopo aver firmato il suo film più denso di significato, tuttavia, con North by Northwest (1959) Hitchcock fa un’inversione a “u” e procede spedito dalla parte opposta. Attraverso un racconto in cui tutto è astratto, a partire da un protagonista che viene preso per un uomo che non esiste, braccato da spie non meglio identificate. Coerentemente, l’apparato visivo è più artefatto che mai, e culmina in un epilogo su un monte Rushmore di cartapesta. Portando dunque alle estreme conseguenze il concetto di film di genere fine a se stesso, il regista perviene a un’opera di pop art in movimento.

Con Psycho (1960), si torna invece a intercettare — volutamente o meno poco conta — significati profondi. Stravolgendo l’omonimo, modesto romanzo breve di Robert Bloch, Hitchcock si ritrova a parlare non solo di un caso edipico da manuale, ma di un incubo americano che di lì a pochi anni avrebbe cominciato e prendere forma. Psycho anticiperà infatti molti elementi narrativi e iconografici di tanto cinema horror indipendente anni Sessanta e Settanta, culminante con l’altro capolavoro The Texas Chainsaw Massacre (Tobe Hooper, 1974). Elementi che in seguito si caricheranno di un’esplicita valenza simbolica e si ancoreranno alla fase più traumatica e autodistruttiva della storia americana. Come un Sir britannico che era partito da semplici thriller abbia potuto profeticamente anticipare tutto questo, rimane un mistero. Fiuto da consumato entertainer, o capacità del grande artista di entrare in sintonia con il proprio tempo? Il fascino del cinema hitchcockiano sta anche in questa ambiguità.

Con The Birds (1963), invece, l’astrattezza si fa definitiva. I volatili che in stormi sempre più nutriti cominciano a tormentare i protagonisti senza un motivo, sono una punizione divina? Sicuramente sono il gesto dadaista con cui il regista-demiurgo decide di imbrattare la tela del grande schermo per decostruire definitivamente il cinema narrativo, e porre basi solide a tutto il cinema post-moderno.

Marnie (1964), un viaggio a ritroso verso traumi infantili, di nuovo sul crinale fra realtà e suggestioni fantastiche, è l’ultimo grande film, nonché la conferma del fatto che pochi come Hitchcock hanno saputo rappresentare sul grande schermo i percorsi psicanalitici. Alla fine della carriera, complice l’anagrafe, ma soprattutto la perdita dei suoi preziosi collaboratori, il regista tornerà entro i binari di un cinema di genere più convenzionale. Ma in termini di rivoluzione cinematografica avrà fatto già abbastanza.

di Emilio Ranzato